giovedì 29 gennaio 2009

Il bambino con il pigiama a righe

"The Boy in the Striped Pyjamas"
Un film di Mark Herman. Con Asa Butterfield, Zac Mattoon O'Brien, Domonkos Németh, Henry Kingsmill, Vera Farmiga, Cara Horgan, David Thewlis, Jack Scanlon, Rupert Friend. Produzione USA 2008. Distribuzione Buena Vista.
 
 
Me lo ricordo ancora il mio docente di Storia moderna all’Università. Aveva l’espressione triste, un tono di voce incapace di catturare l’attenzione; nonostante il microfono, le sue parole trovavano difficoltà a spingersi oltre la terza fila. E se si era troppo stanchi, non era neppure il caso di sedersi di fronte alla cattedra: meglio evitare un colpo di sonno in diretta. Non c’era passione nella sua voce, gli occhi che fissavano un punto indefinito sulla carta o nell’aula mentre la penna accarezzava l’aria; ma non era un vero gesticolare, solo il vezzo di aver qualcosa tra le mani quando si parla. 
“Intolleranza e accettazione. Gli Ebrei in Italia nei secoli XIV - XVIII”, antigiudaismo, antisemitismo, marranos: a distanza di anni, a quel viso continuo ad associare titoli di libri ed espressioni che evocano atteggiamenti persecutori e odio razziale. Studiai svogliatamente la parte monografica del programma senza approfondire granché il tema ; l’esame lo superai brillantemente, aiutata dal fatto che ad interrogarmi fu l’assistente, e quel giorno aveva punta voglia di parlare di Ebrei e di antisemitismo. Archiviai l’argomento.
Dopo anni d’assenza, il volto assorto del Professore di Storia Moderna si è intrufolato nei miei pensieri in una domenica uggiosa di metà gennaio. La pioggia che non vuole smettere di cadere, un cinema chiassoso che sa di popcorn e dell’allegria dei ragazzini attratti da “Yes man”, l’ultimo film con Jim Carrey.
A vedere “Il bambino con il pigiama a righe”, invece, siamo in pochi. M’aspetto già un film triste, sebbene non abbia letto recensioni né, tantomeno, il libro da cui è tratto.
Germania, 1942. Bruno è un bambino di otto anni, figlio di un ufficiale nazista, la cui promozione porta la famiglia a trasferirsi dalla spaziosa abitazione nel cuore di Berlino a un’area desolata del paese. Incurante delle continue raccomandazioni della madre, Bruno decide di esplorare il giardino che dà sul resto della casa e di spingersi verso la “fattoria” lì vicino, recintata da un filo spinato. Un posto curioso, abitato da personaggi strani che indossano sempre una sorta di pigiama a strisce. Qui incontra Shmuel, suo coetaneo dal nome impronunciabile («Non ho mai sentito un nome così», dice il nostro protagonista. «Neppure io ho mai sentito il nome Bruno», risponde il bambino col pigiama a righe).
Un filo spinato non può impedire ai due ragazzini di giocar a dama, di raccontarsi le loro vite, di porsi delle domande. «Hai mai pensato che tuo padre non sia un brav’uomo?», chiede perplesso il figlio dell’ufficiale.
«Mai», risponde senz’esitazione il piccolo Shmuel. Nello sguardo disincantato e curioso dei bambini, il bene e il male si confondono, le certezze dei grandi diventano inspiegabili. «Io sono diverso da te! Sono ebreo». Ma nel candore di Bruno, quella diversità è superabile. È così semplice: basta indossare un pigiama a righe e coprire la testa, non rasata, con un cappellino per eliminare le differenze tra i due.
Il film non rivela nulla di nuovo ma l’Olocausto, osservato attraverso gli occhi di due bambini, disorienta. Sono uscita dal cinema con un nodo alla gola e l’immagine di due mani intrecciate che si stringono con forza.
Successivamente alla visione del film, mi è capitato di leggerne qualche recensione. Alcune piuttosto aspre; il regista Mark Herman è stato criticato per non essere riuscito a staccarsi da un’operazione commerciale e per lo scopo troppo didascalico del film, incapace di commuovere.
Onestamente, non condivido le opinioni della critica.

In questi giorni, di discussioni sull’Olocausto ne abbiamo sentite fin troppe. Molte esternazioni potevano essere risparmiate ma non ho voglia di alimentare la polemica. Penso al film di Herman, ripenso al mio Prof. di Storia Moderna e all’occasione persa, qualche anno fa, di scandagliare vicende che hanno origini lontane, un odio inspiegabile e un crimine collettivo sul quale non si può far cadere il silenzio o fingere d’aver dimenticato.  
 
 

giovedì 22 gennaio 2009

Carta e penna

Può accadere che, per qualche giorno e una miriade di ragioni, non si scriva più. Intendo scrivere veramente, con carta e penna, non pigiare velocemente le dita su una tastiera di un computer.
Capita poi che si prenda un foglio per appuntare alcune parole e orrore!! Le parole vengon fuori dalla penna a scatti, faticosamente. Prima era un fluire naturale e armonioso; le lettere erano tondeggianti o con delle cuspidi, a seconda dell’impeto e dell’umore del momento. Ora sono geroglifici che sembrano non appartenerti.
«Ma questa non è mica la mia calligrafia!», ti viene da pensare. Allora continui a scrivere e, pian piano, riprendi confidenza con la penna; la mano si inclina, il segno s’addolcisce; i pensieri si dispiegano sulla carta senza star a rimuginare troppo sulle parole da usare per esprimere al meglio le proprie sensazioni.
Contempli la pagina e vedi un pezzetto di te. E pensi alla persona che riceverà quelle righe un po’ sbafate, con un paio di cancellature, qualche maiuscola in stampatello, qualcuna in corsivo. Si sa: la mano non è perfetta; si perde la pulizia del tratto ma si guadagna il tepore del pensiero. Perché dietro una pagina manoscritta c’è sempre l’intensità e la trasparenza di qualcuno che non ha avuto paura di donarsi, di raccontare di sé, di mettersi a nudo. E magari sarà pure poco bella esteticamente, ma regalerà il calore di un abbraccio alla persona che la riceve.

mercoledì 14 gennaio 2009

Giorni così...

Ore 6:12 di un mercoledì mattina di metà gennaio. Piove, il cielo è grigio e la cucina un po’ fredda nonostante il riscaldamento lasciato acceso tutta la notte. Il giornalista snocciola cifre e ripete polemiche già sentite. Noi si chiacchiera allegramente, incuranti del maltempo e delle tragedie nazionali.
Tra una risata e l’altra, arrivo in stazione mentre il mio trenino sta partendo. Puntuale, a differenza del solito. «Pace, prenderò il prossimo». Entro in stazione, guardo il tabellone e, ovviamente, il treno successivo ha un ritardo stimato di 15 minuti. Che diventeranno 30.
Profondo respiro. Prendo “Madame Bovary” ed inizio a leggere.
Colleferro – Roma, 59 chilometri, 90 minuti di treno. Va be’, dai, non mi va di lamentarmi pure oggi. Solo che arrivi alla stazione Roma Termini e ti sbattono in faccia la sfavillante pubblicità di Freccia Rossa, il treno delle meraviglie: Milano – Roma in sole 3 ore e 30 minuti. E finisce che pure se il Gruppo Ferrovie dello Stato t’ha dato la possibilità di leggere più del previsto, non te la senti di ringraziarli.
Arrivo davanti all’ufficio. Serrande chiuse. Telefono al mio capo. «Buongiorno cara, come va?»
«Una meraviglia se non fosse per il fatto che piove e l’ufficio è chiuso».
«Ma Fabio non è arrivato? Io sto andando a Potenza…»
«Buon viaggio! Io che faccio invece? Me ne ritorno a casa visto che nessuno m’ha avvertito?»
«Ma che scherzi? Aspetta che ti mando qualcuno ad aprire. Ah, poi però fatti le copie delle chiavi…»
Un’ora dopo il mio collega, stropicciandosi gli occhi e scusandosi per il ritardo, apre. Poggio il piumino bianco sulla mia scrivania e vedo una strana macchia nera. «Ma che diav…»
Fabio:«Ah, niente. Ieri sera abbiamo cambiato i toner delle stampanti. Mi sa che sono stati poggiati lì sopra.»
Mi sa…
Il corriere dell’SDA arriva mentre sto finendo di pulire la scrivania.
«Volenterosa! Ci diamo alle pulizie stamani, è? Sono tornati indietro diversi pacchi. C’è da pagare 10 euro».
Apro la cassa. Vuota. Pago di tasca mia l’importo e vado a prendere un caffé per riflettere meglio sul senso di questa giornata.

domenica 11 gennaio 2009

La magia dei monti

Non è ammissibile commettere sempre gli stessi errori, quindi:
1. non trascorrerà settimana senza scrivere almeno un post;
2. non ti lascerai sopraffare dal lavoro;
3. non trascurerai più amici vicini e lontani;
4. riuscirai a ritagliarti quotidianamente uno spazio per te stessa, per leggere, passeggiare, correre all’aria aperta, guardarti intorno e gioire delle bellezze della natura;
5. sorridi!E smetti di riversare sul prossimo le tue frustrazioni!
6. …
…e giù una lunga lista di buoni propositi.
Oh, sì! È facile iniziar l’anno con atteggiamento propositivo quando si è immersi in questa dimensione:


 Quando, invece, lo scenario torna ad essere questo:


... i buoni propositi si dissolvono nella frenesia quotidiana.
La montagna è magica: non riesco ad odiarla neppure quando sento di sciagure capitate ad escursionisti, scalatori o sciatori. Non sono abituata ad alte vette, né a nomi altisonanti che evocano la società bene, le feste, la vita mondana. Courmayeur, Madonna di Campiglio, Cervinia… sono realtà lontane.
Io sono abituata agli Appennini; alla tranquillità delle passeggiate estive lungo i sentieri della Camosciara, alla magia dei borghi deserti nel periodo autunnale, alle atmosfere rarefatte dell’inverno e all’energia del verde e del cielo azzurro primaverile. 
Il 2009 è iniziato passeggiando tra le viuzze strette e scivolose di Civitella Alfedena, piccolo borgo appenninico nel cuore del Parco Nazionale d’Abruzzo.


Uno di quei posti fuori dal tempo, arrampicato in cima ad un monte, con le casette in pietra, la legna ordinatamente accatastata accanto all’uscio, una botteguccia che vende pane, latte e formaggi e i comignoli fumanti a tutte le ore del giorno.
Insomma, uno di quei paeselli in cui, se vuoi il giornale o vuoi concederti un altro sfizio, beh, allora  ti tocca «scendere giù, in paese che qui di queste cose superflue non ne abbiamo». E quelle cose lì un po’ superflue lo sono davvero, perché le nostre vacanze natalizie quest’anno sono state proprio parche, senza abbuffate di torroni, panettoni e tutto ciò che fa Natale, ma son state molto più intense e sorridenti degli altri anni. Infatti, se è vero che non abbiam rinunciato alle passeggiate giù in paese (Villetta Barrea), è anche vero che son state fatte per il gusto di riappropriarci dei nostri corpi e dei nostri sensi. 
Ci son poche cose piacevoli quanto il camminare tra la neve senza la necessità dell’orologio nè del cellulare, incantati dall’atmosfera ovattata e da un paesaggio in grado di sorprenderti un giorno dopo l’altro. Perché basta uno spiraglio di sole, una tonalità d’azzurro differente, una spruzzata di neve per trasformare il mondo che ti circonda.
E poi, vuoi mettere l’emozione di vivere per una volta in un Presepe anziché doverlo fare a casa propria? Tipico di Civitella Alfedena nel periodo natalizio è il presepe in cartapesta, a grandezza naturale, che si snoda nel centro storico. Una creativa ricostruzione, in grado di ridar vita ai mestieri ed alle scene tradizionali del passato, di render più autentico il percorso che porta alla Natività. Un Presepe in cui, anche occhi scettici come i miei, si son guardati intorno trasognati. 
E la spettacolare fiaccolata del 30 dicembre?
Il mio ragazzo me ne parlava da anni di questa fiaccolata che «non è una semplice discesa a valle con le torce accese. Noo! È un evento imperdibile con figure che s’accendono sul Monte Mava. Una cosa inenarrabile!»
Io, il 30 sera, dal piazzale di Santa Lucia, dove c’eravamo appostati per seguire la fiaccolata, d’inenarrabile sentivo solo un gran freddo. Poi però le luci del paese si sono spente, una struggente melodia tunisina ha avvolto la piazza e una lunga fila di fiammelle s’è accesa sul versante del Monte Mava di fronte a noi.
Profili di bimbi, sagome di stelle, cavallucci a dondolo, altalene in movimento si sono lentamente venute a formare davanti ai nostri occhi. Tante immagini volte ad illuminare i più piccoli, a festeggiare i bimbi, a condannare l’infanzia negata e i diritti dei minori calpestati. Splendido tema per salutare un anno di violenze e lanciare un messaggio forte, augurale, per il 2009. Nell’aria, l’odore di un falò che si stava rapidamente consumando misto al profumo del vin brulè.
Intanto, mentre i fuochi d’artificio riaccendevano il paese, i fiaccolanti erano arrivati a valle e si univano a noi, al tepore del vin brulè, alla dolcezza della cioccolata calda. 
Ancora una volta il mio fidanzato ha avuto ragione: un’emozione indescrivibile.