domenica 26 aprile 2009

Bella Orvieto

Questa è Orvieto.

Metti un dì di festa in un aprile che non vuol saperne d’aprir le porte al tepore della primavera. Metti un’aria che sa di tufo, splendidi pergolati che profumano di glicine, finestre che si aprono su soffitti dalle travi in legno, chiese che qua e là richiamano la tua attenzione. Vicoli quieti percorsi da pochi turisti. 
Anche questa è Orvieto.

E tra una sosta e l’altra, senza voler seguire il percorso indicato dalle poche pagine di  “Bella Umbria”, stampate furtivamente in ufficio, ci ritroviamo a percorrere Via dei Magoni e grandioso, in tutta la sua bellezza, scopriamo il Duomo.

A volte sono insolite le ragioni che portano ad incuriosirti per una località. Io Orvieto ce l’avevo nella testa sin da adolescente.

Era il primo anno di Liceo. Le vacanze pasquali erano appena terminate, il cielo era azzurro e la voglia di chiudersi in classe poca. La nostra insegnante di lettere, una di quelle persone per le quali, ancora oggi, mi viene voglia di dire “una professoressa vera”, donna d’altri tempi, che viveva la sua professione più come una missione che come un mezzo di sostentamento,  percepì il desiderio d’evasione. «Cosa ha reso questi pochi giorni di vacanza indimenticabili?», chiese. Una domandina semplice, di quelle che ti fanno ricordare i temi delle scuole elementari: troppo banale per chi si sente già adulto. Anche le risposte furono per lo più banali, tranne una. Stefania, una ragazzina timida, tutta casa e scuola, sussurrò: «A Pasquetta sono stata ad Orvieto con i miei. Mio papà ci teneva tanto…» Lo disse quasi vergognandosene. Noialtri non avevamo fatto altro che raccontare delle scampagnate tra amici, senza la supervisione dei genitori. Lei aveva taciuto tutto il tempo.
«Che meraviglia! Sei fortunata ad avere dei genitori che ti guidano alla scoperta del bello! E non mi dire che sei rimasta impassibile di fronte ad un capolavoro dell’arte gotica in Italia, quale il Duomo di Orvieto?» Stefy non rispose. La professoressa, invece, donna di cultura che cercava di svegliare la nostra curiosità, la voglia di aprirci al mondo e di esplorarlo, improvvisò una lezione di storia dell’arte.
“Secondo la tradizione cristiana il Duomo di Orvieto fu costruito su ordine del Papa Urbano IV per conservare il corporale di Pietro da Praga, prete di origine boema. Il sacerdote rientrava da un pellegrinaggio a Roma, dove si era recato per ritrovare la fede perduta. Sulla strada del ritorno, a Bolsena, durante la celebrazione della messa, vide stillare sangue dall’Ostia. A ricordo di quell’evento, nel 1290 il Papa Nicolò IV pose la prima pietra del duomo, in corrispondenza della IV colonna su cui è scolpito l’inferno. Ma è ovvio, che a motivare la costruzione della cattedrale furono prevalentemente ragioni politiche, sociali, artistiche.  I lavori per la costruzione del duomo durarono all’incirca tre secoli. Non sto qui a parlarvi dei vari architetti e scultori che lavorarono intorno alla cattedrale ma ricordate il nome di tal Lorenzo Maitani: si devono a lui le decorazioni della parte inferiore della facciata, così come la loggia ad archi: con il suo estro introdusse degli elementi che interrompevano la linearità del progetto iniziale. Ne è venuta fuori una fastosa facciata, impreziosita da mosaici, bassorilievi marmorei e un meraviglioso rosone dell’Orcagna. Le edicole invece sanno già di Rinascimento. E poi si distingue chiaramente l’uso di materiali diversi: marmi colorati, l’alabastro, il travertino, il marmo di Carrara, vetro lavorato ed acquistato a Firenze ed a Venezia. Pensate alle risorse economiche messe a disposizione per costruire una struttura del genere. L’interno è molto più austero, eccezion fatta per le cappelle con affreschi che vengono considerate un capolavoro assoluto del Gotico in Italia. Pavimento trecentesco in marmo rosso e poi la stupenda Maestà di Gentile da Fabriano.”



«Ma… nessuno di voi ha visitato Orvieto? In fondo non è così lontano…» I più scarabocchiavano con disinteresse il banco; io pensai a quanto i miei avessero insistito per utilizzare quei giorni per scoprire le bellezze che ci circondano. Ma ero troppo presa dai miei nuovi amici per dar loro ascolto. E poi che figura c’avrei fatto? Come al solito sarei stata esclusa dal gruppo che si stava costituendo; io che avevo già la fama di quella che tanto non viene con noi. Gli adolescenti a volte con le loro parole lasciano ferite indelebili. Stefania intanto parlava della cosa che davvero l’aveva affascinata: il Pozzo di San Patrizio, costruito nella rocca medioevale della città. 

 Il pozzo, realizzato in appena dieci anni, tra il 1527 e il 1537, fu commissionato, neanche a dirlo, da un pontefice, Clemente VII, scappato da Roma dopo il sacco dei Lanzichenecchi. L’architetto Antonio da Sangallo il Giovane risolse il problema della carenza d’acqua dentro la fortezza. La genialità dell’architetto non sta nell’aver progettato un foro verticale dal quale poter attingere l’acqua ma nella doppia scala elicoidale che scende intorno al pozzo. Due rampe indipendenti che permettevano alle bestie da soma di scendere giù, fino al livello dell’acqua, dove c’era un ponticello, esser caricate e poi risalire per l’altra rampa senza andar ad intralciare le bestie che scendevano. Duecentoquarantotto gradini per rampa e settantadue ampi finestroni che permettono tuttora d’inondare di luce il percorso.

Le descrizioni di quel giorno mi colpirono moltissimo. In fondo, per noi che in campagna ci vivevamo già, una scampagnata non era cosa eccezionale. Curiosare in altre città, sì. Quella volta, i miei genitori non avevano avuto tutti i torti. Avevo perso qualcosa ma avevo imparato la lezione.
A distanza di 18 anni posso affermare che la mia insegnante del Liceo aveva assolutamente ragione: spesso le nostre giornate si dissolvono nel nulla quando abbiamo a disposizione, a pochi chilometri da casa, piccoli gioielli da attraversare, respirare, ammirare; luoghi che sanno di un’epoca lontana. Ed è proprio un peccato strasene a casa e lasciarsi ingoiare da una comoda poltrona e da un televisore acceso.  

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