sabato 26 settembre 2009

Biblioteche

Per un periodo della mia vita ho trascorso intere giornate in biblioteca. Ma, allora, ero una studentessa universitaria e la biblioteca non era il luogo in cui scoprire pagine un po’ ingiallite, edizioni vecchie ormai fuori catalogo e introvabili in libreria. Era solo il posto in cui studiare tra una lezione e l’altra, il luogo in cui cercare la concentrazione in quei giorni in cui proprio non t’andava. Non era neppure LA biblioteca. Era “il circolo giuridico” (appartenente alla facoltà di giurisprudenza. Di fatto, il luogo preferito per rimorchiare), “la cripta” (la biblioteca della Facoltà di Economia, ricavata all’interno della Cripta di San Francesco), la  Biblioteca comunale degli Intronati. Disseminate qua e là, in quel di Siena, c’erano poi altri spazi in cui poter leggere, studiare, chiedere in prestito libri ma, una volta affezionatisi a certe facce e ad un certo tavolo, ci si sentiva a casa, e raramente si andava alla scoperta di un’altra biblioteca.
Ad Arpino, mio paesello natio, i libri non hanno mai trovato pace. Sono state scelte sempre strutture fatiscenti: vecchi palazzi nobiliari dagli affreschi bellissimi, chiese sconsacrate, musei. Tutti luoghi splendidi ma pronti a vacillare alla prima scossa di terremoto, ad allagarsi alle prime piogge autunnali,  a dare spazio a mostre ed eventi vari, cacciando via i poveri libri.
Anche le strutture che ospitano le Biblioteche del Comune di Roma non sono tra le più sicure. A volte, restano chiuse anni per interventi di ristrutturazione che sembrano non dover più finire ma, in generale, offrono ottimi servizi e sono efficienti. In quelle del centro, però, c’è sempre tanta gente, telefonini che vibrano, fanciulle dai profumi troppo intensi, un bisbigliare che dopo un po’ diventa un ronzio fastidioso e ne esci irritato.
La biblioteca di Segni, invece, il paesello che gentilmente mi ospita, è silenziosa ed accogliente. Non ci sono cataloghi on line né sistemi di ricerca veloci. Sei costretto a girellare tra i volumi, estrarli, sfogliarli, annusarli, dimenticando così qual era il libro che stavi cercando. E quando t’imbatti in mucchietti di libri, poggiati provvisoriamente su una scala, su uno sgabello, sul davanzale della finestra, in attesa di trovare una sistemazione più consona, non puoi resistere alla tentazione di curiosare. Per rendere la tua ricerca più veloce, potresti semplicemente chieder aiuto alla bibliotecaria, una signora dolce, dallo sguardo mite, con la voce che è un sussurro e gli occhi sempre alla ricerca di qualcosa. Non è di quelle che si lamentano perché c’è bisogno di più spazi e più personale. No, lei è di quelle che consigliano i libri imperdibili e che ti chiedono se t’è piaciuto il libro che hai appena restituito; lei si ricorda ancora di te anche se t’ha visto una sola volta mesi e mesi fa. E leggere diventa ancora più bello.

venerdì 4 settembre 2009

Sulla via del ritorno

Montaione. Bah! Eppure la Toscana un po’ la conosco ma questo paesello non l’ho mai sentito nominare. Il navigatore sostiene che ci siamo quasi: ancora dieci minuti e “avrà raggiunto la sua meta”.
Siamo nel bel mezzo della campagna toscana, tra Firenze e Pisa. Il marito-orsetto ha pensato di rendere il rientro più soft con una breve sosta nell’agriturismo di un suo amico/coinquilino dei tempi dell’università. Ed io, ovviamente, non mi sono tirata indietro. Non è che abbia tutta ‘sta voglia di tornare al tran tran quotidiano. E poi, è maleducazione rifiutare una sosta in Toscana. 
Incontriamo solo auto con targa tedesca. Perfino quando imbocchiamo la viuzza in discesa che segnala “Soiano”, l’agriturismo di Tiberio, troviamo parcheggiate qua è là solo auto provenienti dalla Germania. Che ci faranno così tanti tedeschi nel mezzo del nulla toscano poi?...
Il cancello si apre e spunta Tibo. Calzone corto, torso nudo, pizzetto spavaldo ed il solito sorriso beffardo.
«Dio bono! Ce n’avete messo di tempo!». Perché un ligure aspiri la “c” e continui a ripetere “noi di Firenze” è un mistero ancora da svelare.
«Oh via, si va’ a fa’ un giro», e ci carica su un fuoristrada da campagna, come dice lui, per mostrarci i filari nuovi di zecca che aumenteranno la produzione vinicola. Tibo è fiero della sua azienda, nata appena tre anni fa, e gioca a fare il contadino navigato, dimenticando che ha appena 33 anni e che non è trascorso tanto tempo da quando inveiva contro “quel professore bastardo che proprio non mi voleva fa’ passà l’esame”. 
Il marito orsetto ci dà dentro con le domande tecniche: partono percentuali, tipi di coltura applicati, caratteristiche del terreno, dell’uva, delle olive. Dal canto mio, non vedo l’ora di scendere da quel fuoristrada infernale, sballottolata a destra e manca. Ma non mi lascio sfuggir il benché minimo lamento: non voglio fare la figura della donnina che urla di fronte alla prima sterzata brusca e alla guida spericolata di chi sta palesemente tentando di farti rizzare i capelli. 
Scesa dalle montagne russe, guardo il cielo diventare sempre più rosso, i poggi sempre più sfumati, i filari sempre più lontani. Intanto il vento mescola il profumo della lavanda a quello della terra, i suoni indecifrabili dei bimbi tedeschi si spostano dalla piscina al casale e penso che, in fondo in fondo, la scelta di Tiberio non è stata poi tanto sconsiderata.

Giorni di montagna

Mercoledì, 26 agosto

È una di quelle notti in cui il cielo è più immenso, le stelle sono più luminose, il silenzio sussurra frasi dolci che parlano di serenità, di un domani diverso. È una di quelle notti in cui trattieni il fiato per non disturbare la voce della natura che ti circonda.
Il vociare allegro della cena a quota 1500 metri, nel Rifugio Croz dell’Altissimo, si è dissolto mentre scendevamo a valle. Una fila ordinata di persone; ciascuno con la propria torcia; ciascuno attento a non scivolare su quel sentiero ghiaioso; ciascuno immerso nei propri pensieri. Il rumore dell’acqua; una ventina di persone ferme di fronte ad una cascatella. È solo acqua, sotto un cielo stellato, nel silenzio dei boschi. Eppure restiamo tutti lì, immobili, cercando di fermare quell’istante. Cerchiamo di farlo nostro per poi poterci rifugiare nuovamente lì, quando saremo travolti dal caos cittadino.

Giovedì, 27 agosto


Immersa in un paesaggio lunare, mi chiedo quando spunterà il rifugio Pedrotti. La scalata verso l’alto è meno insidiosa quando la nebbia avvolge tutto ciò che ti circonda.











Camminiamo dalle nove di stamani, gli scarponi iniziano ad essere pesanti, l’aria rarefatta e, nonostante lo sforzo fisico, inizio ad avere la pelle d’oca. Insomma, io sono un’orsetta marsicana, di quelle che bazzicano nel Parco Nazionale d’Abruzzo. Mica sono abituata io a vedere, nel bel mezzo del mese di agosto, strati di neve congelata che giacciono lì da chissà quanto tempo. Un po’ di comprensione per favore! Il marito orsetto, invece, che ha il coraggio di sudare anche quassù, mi guarda con aria compassionevole.
Un miraggio: dev’essere quella casetta là! 

















Ma le indicazioni spengono il mio entusiasmo. Un cane abbaia in qualche posto lassù. L’eco non fa capire quanto su… Il pancino inizia a brontolare e… sì, sì! Stavolta è lui!















Mentre mangiamo qualcosa, il cielo si apre e il Brenta si staglia davanti ai nostri occhi. Le cose belle non si ottengono mai facilmente; bisogna sapersele sudare. Altrochè se ne valeva la pena!


C’incamminiamo verso il Passo Ceda. Il sentiero non è ben segnalato, il cielo è incerto, la stanchezza si fa sentire. Dopo un’oretta di cammino, da buona capa spedizione di un gruppo di due persone (mio marito ed io), mi fermo di fronte alla famosa ferrata menzionata da Paolo, il già citato albergatore-guida. «È un percorso splendido. Un po’ lungo ma con poche difficoltà. C’è giusto una ferratina… Niente di chè: la fate senza problemi». Ora, gente, fino a dieci giorni fa, io neppure avevo idea di cosa fosse una ferrata e, sinceramente, il fatto di trovarmi davanti ad un non sentiero, aggrappata ad una corda di ferro vacillante, sebbene solo per pochi metri, con lo strapiombo sotto, non è che mi riempia il cuore di gioia. «È che tu non sai usare bene la corda», sentenzia il marito orsetto che ha già preso in mano la situazione, mostrandomi come procedere. Avrà indubbiamente ragione lui ma, come dire, paralizzata da un secondo di terrore, la teoria è precipitata nel vuoto e le sue rassicuranti parole si perdono nell’aria. Un po’ vacillando, un po’ imprecando, ce la faccio anch’io. E torna l’euforia di chi, un po’, si sta mettendo alla prova. (Sì!, sono proprio brava!)

Ma il percorso è davvero lungo e nonostante il paesaggio splendido, fiorellini mai visti prima e compagni di viaggio inattesi, nell’ultimo tratto che ci separa dall’albergo, sogno solo di potermi finalmente sfilare gli scarponi.
Mai cena è stata più deliziosa di quella divorata stasera. 

Venerdì, 28 agosto


L’orsetta marsicana si sente ormai completamente a suo agio tra le cime dolomitiche e non la smette di zompettare nel verde intonando «Holalà hiii, hoolalàà hii…» Poco distante, il marito orsetto la guarda scuotendo la testa e borbottando «È fatta così! Che ci posso fare?». Ma, in fondo in fondo, se la sta godendo anche lui, dimentico delle grane della quotidianità.


Nota a margine
Qualora immagini e parole vi avessero invogliato a prendere scarponi e bastoncini e partire alla volta di questi sentieri, vi consiglio di cuore l’Alpotel Venezia di Molveno (www.alpotel.it), piacevole alberghetto a conduzione familiare. Eccellente rapporto qualità – prezzo e una cucina deliziosa (lo strudel, che goduria!). Si è in albergo ma ci si sente a casa propria grazie alle attenzioni della signora Renata, gli aneddoti, i suggerimenti, il desiderio di guidarti alla scoperta della montagna del signor Paolo e l’allegria dei figli. Impossibile trovare delle pecche.