giovedì 30 dicembre 2010

I sogni son desideri

Premessa: anziché scrivere questo post sarei potuta andare dall’analista. Ma ancora non ne ho uno, quindi mi sono limitata a riflettere e poi a vuotar il sacco. Insomma, se oggi sei un po’ triste, malinconico e giù di corda, magari fa’ un salto in qualche altro blog amico. Non mi offenderò… Giorni di fine anno: oroscopo per il 2011, elezione di uomini e donne dell’anno, classifiche, bilanci, statistiche… Non vorrei fare nulla di tutto ciò ma, inevitabilmente, in questo giovedì tutto per me, con il cielo azzurro e l’aria pungente, lontana dalle incombenze quotidiane, sollevata dai crucci che ci ricordano la precarietà dell’esistenza, finisco per ripercorrere il 2010, ormai pronto a lasciarci.  
È stato un anno pieno di cambiamenti, decisioni da prendere, cose da fare. Eppure è stato un anno opaco. Ho meditato a lungo stamani su cosa abbia reso meno memorabile questo 2010 rispetto agli anni precedenti; sul perché abbia scritto meno del solito, sull’assenza d’entusiasmo, sul perché sia cambiato il mio modo di affrontare le cose, sul perché di tante mie disaffezioni. Cos’è mancato in un anno apparentemente tanto affaccendato? Ho pensato al blog, al mio nickname e poi ho capito. Chissà perché non me ne sono accorta prima…
Anche in passato ho lamentato il ridotto numero di viaggi e l’esiguo numero di libri letti rispetto alle intenzioni. Ma ci son sempre stati i sogni. Tanti, troppi a sentire chi mi rimproverava d’esser sempre altrove. Il 2010 è stato un anno senza sogni, un anno con i piedi ben piantati in terra, in cui tutte le decisioni sono state prese solo con la testa, perché era meglio così. Concreta come mai ero stata prima. Niente spazio all’immaginazione, alle fantasticherie, ai desideri, alle aspettative. Non mi son presa i miei spazi per pensare e cercare di capire, investita dalla necessità di non perder tempo, di agire, di mettere al primo posto le priorità. Ma come riconoscerle le priorità se ci si lascia travolgere da quelli che vengono comunemente definiti improrogabili doveri?    
 «E perché ammorbarci con un post deprimente proprio nei giorni di festa?», vi chiederete giustamente voi. Perché per prendere sentieri nuovi bisogna lasciar andare la zavorra che ci si porta dietro; perché già l’anno scorso parlai della voglia di vivere con leggerezza, la leggerezza di un pianista che esegue agilmente un pezzo senza alcuna pressione suoi tasti, la leggerezza di Calvino, volta a togliere peso alle figure umane, alle città, alla struttura del racconto. Ecco, quella leggerezza lì nel vivere non c’è stata, ma ho avuto la conferma di quanto sia necessaria.
Un augurio sincero a tutti gli amici che passano da queste parti: che il nuovo anno vi faccia rispolverare vecchi sogni e sfornarne di nuovi. Vi auguro di avere (e saper trovare) più tempo da dedicare a voi stessi, ai vostri pensieri, a ciò che vi appassiona, alle persone che amate. Vi auguro di non dover mai rinunciare ai vostri sogni, grandi o piccoli che siano e, soprattutto, auguro, a chi ha smesso, di ricominciare a sognare, perché una vita senza sogni è una vita insapore.

Buon 2011! 

martedì 21 dicembre 2010

Dublinesque

Ci sono libri che non riescono a prenderti per mano. Non perché siano banali o scontati. Tutt’altro. Ne hai letto recensioni lusinghiere. L’incipit ti ha colpito subito; non puoi non sottolineare un periodo qui e uno là. Eppure non sei preso dalla smania di tuffarti tra le pagine, rubare tempo al lavoro, al sonno, ai doveri quotidiani per tornare alla tua storia. 
La lettura di Dublinesque è stata lenta, tortuosa, faticosa. Però non riuscivo a mettere da parte il libro e rimandarne la lettura a tempi migliori. Strano. Peraltro io sono una di quelle che non hanno alcuno scrupolo nell’interrompere un libro, riporlo e aspettare che sia lui a chiamare di nuovo. Ma questa volta nulla. Avanzavo a stento ma non riuscivo a volgere l’attenzione altrove. Una sorta di tigna tra me e un libro neppure tanto corposo.
“Appartiene alla stirpe ormai sempre più rara degli editori colti, letterari. E assiste tutti i giorni commosso allo spettacolo di come il ramo nobile delsuo lavoro – editori che ancora leggono e che sono sempre stati attratti dalla letteratura – in questo inizio di secolo vada estinguendosi silenziosamente. Due anni fa ha avuto problemi, ma ha saputo chiudere in tempo la casa editrice che, pur avendo raggiunto un notevole prestigio, procedeva tuttavia con sorprendente ostinazione verso il fallimento. In più di trent’anni di parabola indipendente c’è stato di tutto, successi ma anche pesanti sconfitte. La deriva della tappa finale la attribuisce alla sua resistenza a pubblicare libri di storie gotiche alla moda e altre inezie, e in questo modo trascura parte della verità: che non ha mai brillato per il suo talento nella gestione economica e che, inoltre, probabilmente è stato danneggiato dal suo fanatismo smisurato per la letteratura”.
Ora, è chiaro che un'opera che inizia così non la si può abbandonare a metà strada. Specie se il lettore, tra una vicissitudine e l’altra, ha incrociato il mondo dell’editoria e avrebbe tanto desiderato prolungarne la frequentazione. Manuel Riba, protagonista del romanzo (o, forse, co-protagonista, perché i protagonisti veri sono la Letteratura e l’Editoria), è l’editore che ciascun lettore sogna di poter incontrare prima o poi nella vita. 
Uno che "ha sempre ammirato gli scrittori che ogni giorno intraprendono un viaggio verso l’ignoto e tuttavia rimangono tutto il tempo seduti in una stanza. Le porte delle loro camere sono chiuse, non si muovono mai, ciononostante il confino offre loro l’assoluta libertà di essere chiunque vogliano essere, di andare ovunque li portino i loro pensieri. A volte collega questa immagine dei solitari nei loro luoghi di scrittura con quella che è stata l’ossessione di tutta la sua vita: la necessità di catturare un genio, un giovane che fosse molto superiore agli altri e che nella sua stanza viaggiasse meglio di chiunque altro. Gli sarebbe piaciuto scoprirlo e pubblicarlo, ma non l’ha trovato ed è del tutto improbabile che lo trovi ora”.
Un editore che ha trascorso la vita ossessionato dal suo catalogo; uno che si considera tanto lettore quanto editore, uno che “ha rinunciato alla gioventù per cercar l’opera onesta di un catalogo imperfetto; ed ora che tutto è finito gli rimane una sensazione da chi me l’ha fatto fare. Un rimorso aspro durante le notti. Ma nessuno può privarlo dell’aver avuto un desiderio e di aver cercato di realizzarlo”. 
Una velata accusa verso un’editoria che ha sempre meno il coraggio di rischiare. Si pubblica ciò che presumibilmente venderà. Poco conta la qualità dell’opera perché i lettori, si sa, sono un po’ ottusi. È come con la televisione: i lettori, come i telespettatori, hanno bisogno di distrarsi mica di capire, approfondire, pensare.
In Dublinesque c’è lo spettro dell’editoria digitale che fagocita il libro; c’è Google che risucchia il lettore; c’è il bestseller che offusca la Letteratura. In Dublinesque si aggirano le più disparate presenze: fantasmi di scrittori, protagonisti di celebri romanzi, autori sognati e mai incontrati, amori finiti…
E poi c’è una malinconia di sottofondo e un senso di incomprensione, di sfuggevolezza, che ti accompagnano fino alla fine. 
Succede quindi che, nonostante una certa difficoltà di lettura, Enrique Vila-Matas ti costringe a terminare il suo Dublinesque, a farti tornare sui capoversi sottolineati, a farti cercare le opere citate e a farti aggiungere almeno un paio di titoli a lui riconducibili nella tua wish list per le prossime letture. 
Niente male per un libro che non è riuscito a prenderti per mano.

domenica 7 novembre 2010

Il romanzo

Nella mia testa non poteva che essere questa l’atmosfera ideale per la lettura di Guerra e pace:

accompagnata da un bicchiere di vino rosso, il cielo grigio, la pioggia che scende di malavoglia.
Perché Il romanzo, quello che mi ha incuriosito da sempre ma anche un po’ spaventato, doveva essere letto nel clima giusto, magari in un periodo di ferie prolungate, senza dover scippare ore al lavoro o prendere in prestito momenti preziosi riservati ad Orfeo.
E poi perché credevo non si potesse interrompere bruscamente Il romanzo e lasciarlo parcheggiato lì, sul comodino, per giorni e giorni, ché se ciò fosse accaduto mai avrei ripreso la lettura. Magari sarebbe finito anche lui nello scaffale degli iniziati e chissà quando portati al termine.
Invece è andata a finire che ho cominciato a leggere Guerra e pace in un giorno così:

in cui il caldo di luglio si faceva sentire, le ferie sembravano ancora troppo lontane e troppo brevi per assaporare il piacere di immergersi totalmente nella romanzo e un paio di volte m’è balenata pure l’idea di tuffarmi in un giallo, ché quando mai si leggono i mattoni nel mese d’agosto?!
“La trama del romanzo è nota a tutti…”, mi trovavo a leggere ogni volta che cercavo spunti di riflessione e osservazioni sul romanzo e su quel tipo originale che fu Tolstòj. Nota a tutti tranne che a me perché io non solo non ho mai letto alcuna riduzione dell’opera ma non ho mai visto neppure alcun film né fiction televisiva (m’è giunta voce ne abbiano trasmesse un paio) sul grande romanzo. Sì, va bè, sapevo che c’era una certa Nataša, intelligente, affascinante, forse il personaggio femminile più amato della letteratura di tutti i tempi; sapevo che alla bella Nataša si contrapponeva un altrettanto intrigante principe Andréj; sapevo che c’erano le guerre napoleoniche e l’incendio di Mosca, sapevo che c’erano il Romanzo e la Storia però, per dirla tutta, non conoscevo granché bene né la trama dell’uno ne le vicende dell’altra.
Ora, scrivere una recensione su Guerra e pace è da presuntuosi, così come è banale suggerirne a tutti la lettura. È banale anche dire che è un romanzo grandioso, musicale, con qualche pagina che forse si sarebbe potuta tagliare e un epilogo che lascia interdetti (e che non racconterò perché dovesse mai esserci qualcun altro che non ha ancora letto l’opera…). Giunta all’epilogo del romanzo, ho cercato altre pagine che sapessero di finale, invece ho trovato solo riflessioni di Tolstòj sul modo in cui gli storici studiano la vita degli uomini e cercano invano le cause dei principali avvenimenti della Storia. Ma il Romanzo s’era già concluso ed io non riuscivo a farmene una ragione  per quanto continuassi a sfogliarne le pagine.

Un paio di commenti sull’edizione acquistata. Ho scelto l’edizione Mondadori solo perché costituita da quattro agili volumetti, ben rilegati, contenuti in un bel cofanetto. Ancora non mi capacito di come alcune case editrici possano pensare di racchiudere in un solo tomo un’opera della mole di Guerra e pace. Non tutti, ahimè, possiamo concederci il lusso di leggere a casa nostra, comodamente sdraiati sul divano; quasi 2000 pagine si portano malvolentieri sull’autobus, treno, in borsa e così via. L’edizione Mondadori ha il pregio, inoltre, delle note: tante note in cui vengono tradotti tutti i dialoghi in francese che Tolstòj ha sparso qua e là nell’opera. Altro elemento positivo, il bel saggio finale di Heinrich Böll.
Poi, certo, viene da chiedersi come sia possibile che alla quattordicesima ristampa di un classico, una casa editrice come la Mondadori, che quattro soldi ce li avrà per pagare un paio di editor e un correttore di bozze, continui a far girar a piede libero opere così poco curate: refusi a iosa, a capo quando qualcuno se ne ricorda, apostrofi se capita e sciatterie varie. Dispiace, anche perché parliamo di Guerra e pace: dubito che nessuno mai abbia fatto notare alla Mondadori tante dimenticanze.

venerdì 1 ottobre 2010

So’ più brava io!!

La bionda: «Dopo vent’anni di esperienza in una segreteria politica, sono abituata a fare di tutto e a vederne di tutti i colori. E certa gente non la devi neppure far parlare. Perché dice solo fuffa. Quindi facciamo un bullet point e mettiamo nero su bianco gli unici punti che dovranno essere affrontati nel corso della riunione».
La bruna: «Tu neppure immagini in che condizioni sono stata costretta a lavorare. Perché loro mai sarebbero stati capaci di fare un assessment. Anni e anni di consulenza, mai sono stata trattata in questo modo. Che pensano di avere a che fare con una segretariuccia?».
Si guardano le due donne in carriera, la bionda e la bruna, scarpe alte versus sneaker, occhi scuri che sfidano occhi azzurri lontani dalla trasparenza degli specchi d’acqua di montagna. Silenzio.
Sorrisetto di circostanza.

«Stampo i documenti prodotti in modo da farti avere un’idea del lavoro svolto».
L’altra: «Ma guarda che a me non devi dimostrar nulla! Sono sicura del fatto che il grosso del lavoro l’abbia svolto tu…». Mentre la stampante partorisce fogli colorati, inizia la competizione.
«Ma anche tu hai collaborato con Mr. Y della società Xyz?».
«Nooo», con aria di superiorità: «Il rapporto con Mr. Y ce l’avevano le ragazze dell’amministrazione. Io mi relazionavo solo con (faccio per dire, ndr) Fabrizio, l’amministratore delegato».
Che mica posso parlare con il primo tizio che passa da quelle parti?, trapela dal tono della voce.
Scatta la vendetta. L’altra parte subito con l’elenco dei potenziali candidati per le prossime elezioni (Aprile 2011), chiamandoli tutti col nome di battesimo. Scorrono i sottotitoli: Che mica sei la sola a fare public relation?
«Allora, facciamo il bullet point… »
Inizia quindi l’elogio a sé stesso, alla vita privata che viene dopo il lavoro, al ruolo sì dimenticato della cultura nel mondo, ai weekend trascorsi in ufficio o lavorando dietro le quinte. Tutto moltiplicato per due. Arriviamo all’ora di pranzo che sono quasi diventate amiche.

Il cibo avvicina, si sa. Al ritorno dal pranzo progettano già un viaggetto insieme. E iniziano a fare il bullet point.     

mercoledì 29 settembre 2010

Tutto il resto è noia

Così il mese di settembre è volato via. Tra sveglie che suonano presto, lenti a contatto che bruciano, Pc sempre accesi, palestra mancata, corsa rubata, letture rimandate e quell’insoddisfazione strisciante che attraversa le tue giornate. Eppure s’era detto che questo mese sarebbe stato diverso, che mi sarei impegnata per farmi scivolare addosso tutte le arrabbiature, le parole di troppo, tutto ciò che avvelena le giornate. Ma poi non è così facile e l’unica cosa che ti rasserena è sapere di tornar a casa e poterti accoccolare al signor valigiesogni.
Chiudere gli occhi e avere la consapevolezza che ciò che conta è lì accanto a te. Tutto il resto è noia.

giovedì 2 settembre 2010

Umbilicus Italiae

Ci sono delle città delle quali spesso dimentico l’esistenza. Una di queste è Rieti. A volte fatico perfino nel ricordare che si trovi nel Lazio. Per colmare le mie vergognose lacune in geografia e per assaggiare la celebre cucina di Dario (ahimè!, chiuso per ferie, ma questo lo ignoravamo) tanto decantata dal signor valigie sogni, domenica scorsa ci siamo spinti alla volta della città dei Sabini. La strada scelta dal signor valigiesogni è lunga, tutta curve e tutta verde. Ha sempre in mente percorsi alternativi quest’uomo. 


Prima tappa della giornata, il Santuario di S. Maria in Vescovìo. Arriviamo in un luogo isolato, dove tra cipressi e tracce del passato, spunta la chiesa, una sola navata, con all’interno affreschi risalenti alla fine del Duecento. Pace, silenzio e la voce dei cipressi.



L’odore della frittura di pesce proveniente dal ristorante adiacente toglie un po’ di poesia a tutta la cornice, ma non si può arrestare il business.
Eremi e angoli che trasudano spiritualità: il viaggio verso Rieti prosegue.

Arriviamo. Mi aspettavo una cittadina ventilata, cinta da mura medievali, con una piazzetta centrale e gruppetti di ragazzi a bighellonare per strada. Le mura in effetti le ho trovate (XIII secolo), la giornata era ventosa ma calda nonostante la rassicurante presenza in lontananza del Terminillo; tutto il resto invece m’ha lasciato di sasso.
Cittadina elegante, molto curata, ricca (considerando la cospicua presenza di istituti di credito), chiese trecentesche e palazzi signorili. Passeggiamo lunghe le rive del Velino. Belle casette dai balconi in fiore che si affacciano sull’altro lato del fiume, acque limpide e fresche e la corrente che ti ipnotizza.
Poi ci lasciamo prendere dalla vivacità del centro, camminiamo tra i vicoli alla ricerca del monumento indicante l’Umbilicus Italiae, perché Rieti è “città del centro”.
«Terra dell’UDC?», penso ascoltando le parole del signor valigiesogni. «Macché, centro geografico dello Stivale!» Ah, ecco. E camminando ascoltiamo le note che provengono dalle finestre aperte del Teatro Flavio Vespasiano. Siamo alle prove finali: l’estate reatina è ricca di eventi e non manca la musica classica. Il programma della serata prevede, tra l’altro, l’Incompiuta di Schubert e il Concerto n°2 di Beethoven eseguiti dalla Tafelmusik Orchestra, diretta da Kent Nagano.
«Restiamo?», chiede il signor valigiesogni che conosce la mia voglia di musica. Insomma, Rieti non è proprio dietro l’angolo e il lunedì mattina si lavora, quindi non si dovrebbe fare tardi, però… Sembra che l’acustica del Teatro Flavio Vespasiano sia una delle migliori al mondo e poi biblioteche e teatri raccontano tanto della storia di una città, quindi se si ha la possibilità di unire alla visita anche uno spettacolo non riesco a rifiutare.
Bella, proprio bella questa domenica di fine agosto, tra chiese e musica, acque limpide e un po’ di storia. L’interno del Teatro Vespasiano merita da solo il prezzo del biglietto. Acustica ottima e esecuzione emozionante. Al pianoforte, Jacopo Giovannini, tredici anni appena e la dimostrazione che la musica è un dono: non tutti ce l’hanno. Impeto, sensibilità e quel groppo in gola che solo la musica riesce a suscitare.

martedì 24 agosto 2010

Ritorni

L’estate è finita. Aria condizionata accesa, strade ancora deserte, zanzare ancora in azione, ufficio semivuoto, gli occhi spenti di chi è tornato alla scrivania, impegnato a scegliere una nuova foto per il proprio desktop. Non parla quasi nessuno. Siamo tutti là indaffarati a riorganizzare le idee e a mettere a posto dentro di noi le immagini dei giorni scorsi. Abbiamo già dato uno sguardo al calendario e programmato il prossimo viaggio. Nessuno lo confessa ma sono certa che ieri l’abbiano fatto un po’ tutti. Io per prima.
Sono stati giorni intensi, lontani dai TG, dalle vicende politiche (per quanto possibile), dal caos, dalla fretta.

Giorni di spaghetti al pomodoro, di carne alla brace, di ortaggi appena raccolti e frutta profumata.
Giorni appassionati, persa tra le fantasie di Nataša, l’impeto di Nikolaj Rostov, la mitezza di Pierre; turbata dal ritratto di Napoleone e da quanto la sua ambizione ricordi alcuni personaggi dei nostri giorni. La guerra, la morte, ma anche il delirio di onnipotenza, il desiderio di fama. Impossibile staccarsi da Guerra e pace; piacevole sapere che mi accompagnerà ancora per un po'.
Giorni di corsa, la corsa che fa bene, quella con le scarpette e i calzoncini mica quella per rincorrere il bus o per non perdere la metro. Salite, discese, il cielo azzurro, l’ombra delle colline laziali e qualche pensiero sparso. C’è stata anche una garetta estiva (almeno una al mese va fatta) ma la performance non è stata granché; tralasciamo. 


Giorni di montagna, tra i sentieri del Parco nazionale d’Abruzzo, la serenità del monte Tranquillo (il nome racchiude l’essenza della passeggiata), la bellezza del lago di Barrea e di quello della Montagna Spaccata. 
Giorni avventurosi in cui da provetta Indiana Jones ho guadato torrenti, affrontato belve pericolose (forse una vipera, forse un terribile serpente velenoso, probabilmente una biscia d’acqua…), camminato lungo pendii fino ad allora inaccessibili. 

E poi la malinconia del ritorno e il ritorno delle inquietudini che tormentano le tue serate. Manca sempre qualcosa. Forse è il desiderio di lentezza, è la necessità di avere più tempo per pensare, per ascoltare il silenzio, per ritrovare nella quotidianità quella pace che caratterizza i monti.
Quindici giorni non sono stati sufficienti per disintossicarmi da questa vita un po’ avvelenata. E riprende l’affannosa ricerca per renderla un po’ migliore.  

Profumo d’estate

«Quest’estate faremo tante passeggiate in montagna».
«Ora no. È un testo impegnativo. Questa sarà la mia lettura per l’estate».
«Però quest’estate potremmo andar a visitar quel paesino in provincia di Viterbo…»

È da giugno, da quando è entrata la bella stagione, che il signor valigiesogni ed io continuiamo a fare progetti ed elencare buoni propositi come se l’estate in realtà non coincidesse con il solstizio di giugno ma con l’arrivo delle ferie. Così, la settimana scorsa, con luglio che stava per salutarci, continuavamo a far programmi grandiosi sull’arrivo dell’Estate. Ascoltando colleghi e amici, ho scoperto che siamo in parecchi ad avere la stessa mania. Il sole tramonta sempre prima, le ore di luce diminuiscono, un maglioncino sulle spalle la sera è cosa gradita e noi siamo lì ancora parlare dell’arrivo dell’estate. 
Bene amici, udite udite, domani anche a casa mia arriverà l’estate! Yeahhh! Parzialmente, perché potrei comunque esser richiamata al dovere anzitempo, parzialmente perché il signor valigiesogni è ancora occupato. Per giunta sarà un’estate breve perché il 23 agosto sarà già finita. 
Però oggi fatemi assaporare la dolcezza di una serata vissuta senza l’incubo della sveglia presto l’indomani. Fatemi sognare una giornata lenta, con una bella corsa al mattino, la colazione con la musica e il giornale, le tazze lasciate lì e il piacere di prendere un libro, sdraiarmi e leggere, leggere, leggere finché ne ho voglia. L’ebbrezza di non dover guardare l’orologio e di poter cambiar idea e fare altro.
E poi, con calma, preparare una cenetta vera al signor valigiesogni così che anche lui possa avvertire l’arrivo dell’estate.    

giovedì 15 luglio 2010

Rotelle di liquirizia

Per qualcuno potrebbero essere solo liquirizie a rotella. Per me, invece, quelle rotelle racchiudono ancora la dolcezza del ritorno a casa del mio babbo. 
Papà lavorava “fuori”, con tutto il fascino che quel fuori può rappresentare per un bambino. Fuori poteva essere Potenza, Capua, un paesino dimenticato del Molise. Per me, bimbetta dai cappelli a caschetto, fuori significava semplicemente che papà andava via il lunedì mattina all’alba e che sarebbe tornato solo il venerdì sera. Poi c’erano le telefonate, i «lì piove? Cosa hai mangiato?  Hai fatto la brava oggi?». C’era la voce, una voce cha a me sembrava sempre la stessa ma forse solo perché non ero in grado di percepire le note della stanchezza di chi ha una piccola società e tanto lavoro da portar avanti.
E poi c’era la malinconia della mamma. Quella sì, riuscivo a intuirla già allora. Il viso di mia mamma non è in grado di nascondere alcuna emozione. E, finalmente, c’era il venerdì sera e l’arrivo di papà. Rientrava, con gli occhi gonfi e il sorriso sulle labbra, e depositava una bustina sul tavolo della cucina. Chissà perché ma non è mai riuscito a superare l’imbarazzo di darmi un regalo. Neppure oggi che sono grande abbastanza e ci vediamo sempre meno. La distribuzione dei doni è compito della mamma, anche quando a voler fare un regalo è il babbo.
Le buste Haribo erano quelle che mi arrivavano con più frequenza e per me, che non ho mai avuto grosse pretese, non c’era regalo più magico di quelle liquirizie arrotolate o di quelle lunghelunghe. A volte arrivavano macchinine (sì, ero un maschiaccio), costruzioni, regali veri. Però io, ancora oggi, resto come ipnotizzata davanti allo scaffale dei bonbon tutte le volte in cui si fa sosta in autogrill. E penso al babbo.

Anche il signor valigiesogni, noto stachanovista, è spesso “fuori” per lavoro. Ora quel fuori ha sempre un nome diverso: Milano, Bologna, a volte Mestre. E, quando torna dalle sue trasferte, ha sempre una sorpresa per me. A volte si chiama Camilleri, a volte Savage, l’ultima volta si chiamava Carofiglio.
Ed io, nell’attesa, torno un po’ bambina, impaziente di buttargli le braccia al collo mentre sbircio quel volume che fuoriesce dalla tasca del trolley. 

lunedì 5 luglio 2010

Scelte

Sabato mattina guardavo e riguardavo la mia piccola libreria. Eppure, fino al giorno prima era certa del libro che avrei iniziato a leggere. Ma quelle, nel mio caso, sono sempre certezze provvisorie. La mente è tornata al commento di Duck al mio post precedente:

“Non è meravigliosamente eccitante trovarsi alla vigilia di una nuova avventura intellettuale? Se c'è una cosa che mi piace davvero è fermarmi davanti alla mia libreria per scegliere il libro da leggere. E quando finalmente ho deciso, sento sempre un piccolo brivido: inizia qualcosa di nuovo, mi si aprono davanti porte di cui sospettavo solo l'esistenza, che potrebbero introdurmi a mondi dove forse potrei trovare chissà quali intuizioni sulla vita e su di me”.

Verissimo.
E ho pensato anche al mio rapporto con le altrui librerie. Maniacale. Anobii è stata una grande invenzione che ha esasperato la mia già compulsiva smania di frugare tra gli scaffali altrui. Prima, almeno, mi dilettavo solo con le librerie amiche; ora, mi perdo anche tra le passioni letterarie degli sconosciuti. Ma si può?
Alle volte ho la sensazione di invadere troppo la sfera personale dei lettori anobiiani perché la libreria di ciascuno di noi racconta parecchio ciò che siamo. Ma, in fondo, se abbiamo scelto Anobii, abbiamo anche scelto di svelare un pezzettino di noi.
Delle affinità me ne infischio. Sono le recensioni a mandarmi completamente fuori di testa. Più sbircio, più leggo recensioni, più aumenta la mia wish list. E, a rifletterci, è anche leggermente cambiato il mio metodo di scegliere e acquistare libri. Ovvio, i miei criteri di selezione sono rimasti, ma a questi si sono aggiunte le brevi recensioni di anobiiani a me cari. A volte per pura curiosità.  Altre, perché le recensioni sono così convincenti da farmi fortemente desiderare il tal libro.
Comunque, alla fine, ho scelto Correre di Jean Echenoz. Un gioiellino. 

giovedì 24 giugno 2010

Il giocatore

Finalmente ritornavo dopo un'assenza di due settimane. Già da tre giorni i nostri si trovavano a Roulettenburg. Pensavo di essere atteso con chi sa quale ansia, e invece mi sbagliavo. Il generale mi accolse con una disinvoltura eccessiva, mi parlò squadrandomi dall'alto in basso e mi mandò da sua sorella. Era evidente che da qualche parte erano riusciti a procurarsi del denaro. Ebbi addirittura l'impressione che il generale mi guardasse con un certo imbarazzo. Màrja Filìppovna, indaffaratissima, mi liquidò con poche parole; prese, però, il denaro, lo contò e ascoltò il mio rapporto.

È l’incipit de “Il giocatore”, romanzo breve di Fëdor Michajlovič Dostoevskij. Forse ci si potrebbe chiedere perché una che non ha ancora letto i Fratelli Karamazov, Delitto e castigo, i Demoni (e potrei andare avanti a lungo visto che è della bibliografia di Dostoevskij che stiamo parlando, mica di uno qualunque) e che di letteratura russa ne sa davvero poco, dovrebbe iniziare proprio dall’insana dipendenza di Aleksej Ivanovic per il casinò. Già, perché?
 “Il giocatore” mi riporta ad una villetta graziosa nelle campagne di Viterbo. È lì che abita la famiglia di Ilaria, compagna di studi universitari, mia testimone di nozze nonché una tra le più care amiche. Ilaria ed io ci siamo conosciute all’inizio del primo anno accademico, in una splendida giornata di ottobre dal cielo blu e l’aria tiepida. Iniziammo subito a parlare di libri e ancora non riusciamo a smettere. Ilaria tornava spesso a casa dei suoi genitori e ritornava a Siena sempre con un carico di libri. «Basta passare nella biblioteca di papà…» ripeteva. Quella biblioteca a strati, con in alto, nascosti, i volumi meno amati e poi, ben in vista, tutta la narrativa italiana, quella russa, quella francese, e la parte di linguistica io l’ho immaginata per tanto tempo.
In fondo in fondo, un po’ d’invidia per Ilaria la nutrivo.
I miei genitori sono eccezionali e hanno iniziato ad acquistare libri prima ancora che iniziassi a leggere perché, pur non avendo avuto un’istruzione universitaria, hanno sempre creduto nel valore della scuola e nel fatto che investire sulla cultura fosse una sorta di dovere morale per capire come va il mondo. Non ero ancora iscritta alla prima elementare e loro avevano già acquistato, a rate, la prima enciclopedia. Erano fermamente convinti del fatto che, se fossi stata una studentessa volenterosa, avrei dovuto avere tutti i mezzi per poter studiare.  Però non sono mai stati grandi lettori. La biblioteca a casa dei miei è nata per me e con me. Così, ho sempre sospirato di fronte all’immagine da racconto ottocentesco di Ilaria che la sera leggeva con il babbo, che curiosava tra i suoi libri e che gli chiedeva consigli di lettura.
Presto è iniziato uno scambio di libri e, ad un certo punto, a forza di sentir parlare di Bulgakov, Tolstoj e Dostoevskij, io che allora reputavo i classici russi una lettura da età matura, iniziai ad incuriosirmi.
Così, una domenica sera, di ritorno da Viterbo, Ilaria arrivò con un libricino della Biblioteca Universale Rizzoli, di quelli con copertina panna e dalle pagine un po’ ingiallite. «Babbo dice che potresti iniziare da “Il giocatore”, così tanto per vedere se ti piace l’atmosfera… Io non l’ho letto, ma se lo dice lui…». Lo iniziai ma l’abbandonai da lì a poco. In fondo, se un libro non ti chiama, inutile ostinarsi a cercarlo.

Non credo sia arrivata ancora l’età matura, ma ultimamente il richiamo dei classici è insistente. Purtroppo il babbo di Ilaria, un ometto dal sorriso gentile e la pipa tra i denti, non c’è più.
Avrei dovuto cercare quell’edizione lì, tra i banchetti dei libri a Trastevere. Però in questi giorni lontani dal romanticismo delle ore universitarie, ho optato per la soluzione spicciola e banale: l’edizione economica della Mondadori. Ciarlare sulla bravura di Dostoevskij è superfluo. Ho però il sospetto che “Il giocatore” segni l’inizio di una nuova era tra le mie letture.   

martedì 22 giugno 2010

Distrazioni

Alle volte sono presa dall’ansia di non essere più in grado di leggere. Giorno dopo giorno il mio livello d’attenzione cala. Ingoiato dal flusso continuo di notizie, dai post lunghissimi di alcuni blog, dai link che ti rimandano ad un altro articolo e poi ad un altro sito, dai reportage, spesso bellissimi ma pur sempre lunghissimi, della carta stampata.  Eppure, fino a qualche anno fa, riuscivo a leggere pagine e pagine senza la necessità di una pausa caffè. Oggi è come se avessi sempre bisogno di un’interruzione pubblicitaria. Con i libri è diverso; riesco ancora ad immergermi nelle parole; riesco ancora ad aprire un libro e ficcarmici dentro fin quando cose e persone non mi distolgono dal mondo in cui sto navigando. Ma se poi accendo il computer è finita. Saltello di qua e di là; trascorrono minuti e poi ore. Ed alla fine, la sensazione di non sapere cosa abbia fatto in tutto quel tempo.

È un mondo dispersivo, e sviluppare la capacità di selezionare è difficile. Poi, quando si riesce a spegnere tutto e a calarsi nel mondo reale ti chiedi perché tu non sia riuscito a farlo prima. Eppure decidere di staccare è quasi faticoso.     

martedì 8 giugno 2010

Tempi moderni

Domanda: ma come facevamo nel Paleolitico, leggi una quindicina di anni fa, senza Internet e il marasma d’informazioni nel quale annaspiamo quotidianamente?

Sono così abituata a cliccare sulla coda della mia Volpe e a trovarmi di fronte l’homepage del mio quotidiano preferito che neanche più realizzo quanto tutto ciò, fino a pochi anni fa, fosse semplicemente inimmaginabile. Do un’occhiata alle news, controllo la posta, passo per il mio blog, leggo qualche blog amico e poi, già che ci sono, inserisco su anobii il codice ISBN dell’ultimo libro poggiato sul comodino. Tutti click naturali, come preparare il caffè al mattino e prendere le chiavi prima di uscire di casa.

Lavoro su un progetto che richiede due nozioni sul mondo del giornalismo e le sue novità. Ho solo digitato “giornalismo crisi” sul Cerca con Google (o Gogol, come usa dire ultimamente) ed è venuta fuori una tesi scritta da una studentessa (ormai Dott.ssa) di un Corso di laurea specialistica in Editoria e Scrittura, diverse pagine di New journalism di Marco Pratellesi, presenti sia su Google libri che su Teca Libri, un articolo in pdf in merito alla crisi della carta stampata in Italia, firmato da Bartocci e pubblicato su il manifesto il 31 dicembre 2009, una nutrita bibliografia, un’aggiornata sitografia e tanto, tanto materiale.
Ma prima come facevamo?

martedì 1 giugno 2010

VIA!


Chiara sostiene che non siamo poi così tanti. A me sembriamo moltissimi. E poi non credevo potesse esserci una tal ressa; la signora in giallo che mi calpesta il piede sinistro senza alcun riguardo mentre a destra uno spilungone mi dà una spallata senza neppure rendersene conto. Tutti ad attendere il VIA. Quasi mi manca l’aria. Ho mal di stomaco. Sarà la tensione della prima gara.

«Ma tu partecipi pure a quella di Cori?», chiede un signore tutto abbronzato a una signora biondina, trendissima, dal capello corto e un tatuaggio blu, astratto molto astratto, sulla spalla.
«No! Troppe salite! Mi vuoi veder morta? Magari un’altra campestre…»
Ancora dobbiamo partire e loro, gli irriducibili, sono già lì a progettare la prossima gara.
Lo sparo della partenza mi coglie quasi di sorpresa. Mi lascio spostare dalla folla in movimento. Solo dopo i primi metri trovo un po’ di spazio. Ma sono ancora barcollante e disorientata. Chiara, che m’ha spronato nell’iniziare quest’avventura, mi rassicura: «Oggi Non sono in gran forma. Quando hai trovato il tuo ritmo, va pure avanti».
Basta controllare il respiro, non lasciarsi prendere dalla foga di voler dare il massimo subito e lasciar volare la mente. In fondo 8 Km e un boccone li posso gestire. L’importante è non arenarsi.
Non sono abituata a correre sullo sterrato: terra, erba secca, buche, dislivelli. Però che meraviglia tutt’intorno. Il cielo è velato; un caldo afoso tipico delle zone paludose, tanto verde e il vociare della natura. A ben pensarci, non potevo scegliere luogo migliore per passare dal jogging alla corsa agonistica.
Corriamo in un luogo splendido, seguendo un percorso che si snoda all’interno dell’Oasi di Ninfa, a Latina, con la fantasia che va alla famiglia Caetani e al castello del borgo medievale di Sermoneta, che improvvisamente mi vien voglia di visitare. Una tranquillità infinita. Un’oasi, appunto.
Mi stacco dal gruppo degli ultimi, avanzo senza però esagerare con la velocità, e finalmente inizio a divertirmi. È quasi come correre da soli, godendosi i suoni nuovi di un luogo sconosciuto, senza farsi troppo prendere dall’ansia della gara. Il quarto, il quinto, il sesto chilometro… posso farcela, posso accelerare. Adesso sì che mi lascio prendere dalla competizione e inizio a superare altri corridori.
«Dai che dietro la curva c’è il traguardo. Dietro la curva però…» E quasi quasi ti spiace non avere accelerato prima, ché la gara sta per terminare e magari avresti potuto fare meglio. Potrei quasi continuare a correre, in fondo non sono così stanca. Il signor valigiesogni è lì, ad immortalare il momento.
«Ma guarda che sei stata bravissima. Giuro! C’hai impiegato pochissimo tempo»; è quasi più contento di me. A leggere la classifica finale, c’è da dire che il signor valigiesogni si è proprio fatto prender dall’entusiasmo perché sono andata bene ma non così bene. Ma è la mia prima gara e non posso che essere soddisfatta. E poi l’obiettivo era arrivare fino alla fine di corsa, divertendomi. Obiettivo raggiunto.
E questo è solo l’inizio… 

venerdì 21 maggio 2010

Camminatori

Tra i maggiori operatori italiani nei servizi di pubblica utilità, Acea è un Gruppo industriale concentrato sul consolidamento e la valorizzazione delle due attività principali, energia e acqua. Nel 1992 Acea si trasforma da Azienda municipalizzata in Azienda Speciale. 
Dal 1° gennaio 1998 diventa Società per Azioni. 
Quotata in Borsa dal 1999, si occupa della gestione di servizi energetici, ambientali e idrici: produzione, vendita e distribuzione di energia, sviluppo di fonti rinnovabili, smaltimento e valorizzazione energetica dei rifiuti, illuminazione pubblica e artistica, servizio idrico integrato (acquedotto, fognatura e depurazione).
2001: il Gruppo Acea acquisisce da Enel il ramo di distribuzione di energia elettrica nell'area metropolitana di Roma. Acea Distribuzione diviene così il secondo operatore di distribuzione di energia elettrica.

Fino a poche settimane fa, per me Acea altro non era che un simboletto su una bolletta da pagare. Poi, mi è capitato di varcare la soglia della sede centrale per una collaborazione "esterna" e dinanzi a me si è aperto un mondo magico. Intenta a svolgere un lavoro noioso come pochi altri, vengo catturata dalla discussione del giorno: risolvere l’annosa questione del perché il responsabile dei camminatori non risponda al telefono. Ohibò, e chi l’avrebbe mai detto che in Acea potesse esserci una comitiva di sportivi appassionati al punto tale da creare un club di camminatori? E già mi vedo di fronte questo club di trekking nato nei meandri di un’azienda di pubblica utilità in cui, diciamocela tutta, l’attività lavorativa non sembra essere delle più pressanti. Sì, va be’, ma perché si scaldano tanto con ‘sta storia dei camminatori che non fanno il loro lavoro? Nella mia ingenuità di persona che ha sempre lavorato nel privato, scopro che dicesi camminatore colui che viene pagato per portare, buste, fogli di carta, documenti, dall’ufficio A all’ufficio B. Penso ai portalettere dei film americani, giovani e aitanti, che girano con i loro carrellini tra una scrivania e l’altra e l’immagine cozza subito con la figura della signora cicciottella che si trascina da una stanza all’altra e che viene additata come una di quelle che «No, no; non fa neppure metà del suo lavoro». E chi si sta lamentando, stizzita, mi guarda e osserva: «Ma io non ci penso proprio ad alzarmi e ad andare in segreteria a prendere questi documenti che ho richiesto! Non è mica compito mio!».
Abbasso lo sguardo e torno al mio lavoro. Devo terminarlo al più presto e uscire da lì prima che orchi e draghi si materializzino davanti alla scrivania. Ma il mio sguardo perplesso non sfugge all’attenzione della persona con cui sto collaborando.
«Per chi lavora qui da anni, il passaggio dal pubblico al privato deve ancora arrivare. Degli addetti al verde non te ne hanno ancora parlato?»
Non ho visto giardini, aiuole o nulla che possa far pensare alla necessità di diversi giardinieri.
«No, no; non parlo di giardinieri ma di addetti al verde, figura fondamentale che vaga nei corridoi per dare acqua alle tre piante che ravvivano l’ambiente… E se ne avessi bisogno, due stanze più in là c’è un cappellano, sempre pronto ad ascoltare tutti i tuoi peccati». Perdindirindina!
Dopo un po’ prendo il mio Pc e mi sposto altrove. Camminando, lo sguardo mi cade sulla targhetta “Cappellano”. C’è davvero.
Riprendo il mio lavoro ma, stavolta, a distrarmi non sono voci di corridoio o discussioni accese ma un suono, lungo, profondo… È come se qualcuno, al di là di quella porta, stesse russando. Mi guardo intorno imbarazzata. Nessuno sembra farci caso. Eppure sì: è proprio qualcuno che russa.
Ore 11.35: un signore in giacca blu e cravatta a righine grigie esce da quella stanza stropicciandosi gli occhi. Guarda un collega e: «Ahò, ‘nnamoce  a fa’ un caffè va!». E io ancora non riesco a togliermi quella stupida espressione stupita dalla faccia. Il pomeriggio i corridoi sono per lo più vuoti: sembra che non sia salutare lavorare dopo le 14.00.
Io non sono di quelle che vivono per lavorare però un minimo di ritegno!

Torno a casa. Accendo la radio. “Il ministro dell'Economia Tremonti, stretto dall'esigenza di far quadrare il bilancio, non ha esitato ad affermare che la crisi è peggiore di quello che si pensa. Intanto il clima di austerity comincia a fare le prime vittime tra i settori del pubblico impiego considerati i più privilegiati…”
Generalizzare non serve a nulla. La pubblica amministrazione non è il diavolo, così come non lo sono i dipendenti pubblici. Però sarebbe bello vivere in un Paese in cui i concorsi nella p.a. si vincessero solo per merito, un Paese in cui non si debba attendere giorni per ricevere un certificato o per avere un chiarimento da un ufficio pubblico; un Paese in cui ciascuno ha i suoi compiti e li svolge al meglio, poco importa che si parli di pubblico impiego o privato. Un Paese normale, ecco.

mercoledì 5 maggio 2010

Istinti

Un altro giorno di pioggia. Metti di uscire all’alba per non far tardi a una riunione apparentemente importante.  Metti che, scesa dall’autobus, inizi a piovere e che si alzi un vento di quelli che uccidono il tuo ombrellino usato solo due volte. Metti che arrivi in ufficio e non c’è un cane perché son rimasti tutti bloccati in qualche punto della città. Metti poi che la riunione tanto importante salti. E metti che, mentre sei lì, davanti alla macchina del caffè, ancora fradicia, qualcuno ti chieda il perché di tanto malumore…
Ogni tanto bisognerebbe ascoltare l’istinto, spegnere la sveglia e girarsi dall’altro lato. Ma chi ha inventato il senso del dovere?

E comunque non è giusto...

E comunque non è giusto perché il weekend neppure lo hai sentito bussare alla porta ed è già lunedì.
Ti ritrovi di nuovo alla tua scrivania, un monitor di fronte e gli occhi che tornano al signor valigiesogni che prepara i ravioli di Giovanni Rana. Quelli con ricotta, spinaci ed erbette. Forse li sanno cucinare tutti ma il signor valigiesogni li fa particolarmente buoni, con sughetto di pomodoro fresco e mozzarella. E poi Revolutionary road, anche se il libro è più bello del film, ma questo lo sanno tutti. Sul letto una ciotola di frutta tagliata a pezzettoni, anche se fuori piove e sembra tanto una domenica uggiosa; una di quelle in cui non si può che esser malinconici.
Ma, chissà perché, non lo siamo affatto. E niente è più dolce di una domenica così.
E comunque non è giusto che sia già lunedì.

sabato 24 aprile 2010

Barcellona

Non sono mai stata particolarmente attratta dalla Spagna. I sogni racchiusi nella mia valigia spaziano da San Pietroburgo all’Australia passando per alcuni paesi dell’America Latina, perché sarebbe un po’ triste morire senza aver visto Machu Picchu, senza aver mai fatto un salto in Messico o in Argentina. Qui però si parla lo spagnolo, va be’, magari non proprio il castigliano, però è dallo spagnolo che bisogna partire. Poi, vuoi mettere il piacere di leggere la letteratura latinoamericana in lingua originale piuttosto che doversi rifugiare sempre nelle traduzioni? Insomma, per una miriade di ragioni diverse, qualche mese fa mi sono iscritta a un corso di spagnolo, il che non giustifica tanto la mia visita a Barcellona dove in verità si parla il catalano. Però avevo pochissimi giorni a disposizione, un po’ di curiosità per quel genio di Gaudì, avevo appena letto La Piazza del Diamante (ambientato per l’appunto a Barcellona) e, per dirla tutta, non avevamo moltissimi soldi. Mescola gli ingredienti e ottieni el destino del viaggio.





Barcellona me l’ero immaginata diversa: una città moderna, caotica, tutta movida e locali notturni. Invece ho trovato un luogo in cui il passato convive con la modernità, una città festaiola in cui però è ancora possibile trovare qualche angolo di pace e splendidi vicoli stranamente dimenticati dallo sconsiderato numero di turisti che gironzola in ogni dove. È anche vero che Pasqua (così come Natale, Ferragosto e ponti vari) non è il momento migliore per partire: non potevo certo pretendere che fossimo i soli italiani in giro; però neppure pensavo di incrociare così tanti connazionali. Sembrava di camminare per le vie di Roma!
 Arriviamo a Barcellona nel bel mezzo della processione del Venerdì Santo. Poca cosa rispetto alle tradizioni delle altre città del sud della Spagna, ci spiegano. Ma a me fa comunque un certo effetto guardare le bambine vestite a lutto che precedono la statua della Madonna con il Cristo morto tra le braccia. Evento più turistico che religioso, visto il numero di flash che lampeggiano, i bandisti che smettono di suonare e quasi si mettono in posa, le signore che sfoggiano un sorriso da pubblicità Durbans “che denti!”.
 Affrontiamo subito La Rambla, ampio viale pedonale costeggiato da ristoranti e negozi, sgomitando tra i turisti accalcati di fronte agli artisti di strada, più fantasiosi rispetto a quelli di Piazza Navona. A Roma siano abituati all’uomo-statua, quello che non fa un movimento neppure se gli si fa solletico sotto la pianta del piede. Qui no. Le statue viventi non parlano ma gesticolano, lanciano messaggi con lo sguardo, sono tutti variopinti, mimano interpretando personaggi diversi. Però continuo a non capire perché i turisti restino ipnotizzati di fronte a tali performance.
 Ce la prendiamo comoda e imbocchiamo la via del mare tra bancarelle di cianfrusaglie e artigianato locale, il profumo dolciastro dello zucchero filato e delle mandorle glassate. E il nostro pomeriggio vola via in quella condizione senza tempo di chi sa di non aver bisogno dell’orologio e di potersi lasciar andare. 

Nei giorni successivi, però, inspiegabilmente mi lascio prendere dalla foga di vedere tutto, di massimizzare i tempi, di non poter perdere nulla di ciò che avevo progettato di visitare. Una sensazione strana, mai provata in precedenza. Io che generalmente finisco per caso nei luoghi da visitare, io che preferisco smarrirmi tra le vie, fermarmi a leggere negli angoli più incantevoli, curiosare nei negozi, scribacchiare un po’ ovunque, mi trasformo nella visitatrice-turista che deve divorare tutto senza gustare nulla.
 Ancora non capisco cosa diamine mi sia preso ma è andata a finire che, dal secondo giorno in poi, Barcellona l’ho vissuta a metà. Ho camminato tanto, ho visto tanto, non ho né scritto né letto nulla e ho come la sensazione di essermi lasciata sfuggire i momenti più magici, quelli che le parole non possono raccontare. Ho acchiappato tante cose ma ho perso il piacere della scoperta. Boh!

 Ciò che più m’ha encantado è stata La Sagrada Família e l’esterno (non sono entrata) di Casa Battlò. Banale, lo so. Ma la Sagrada Família non può lasciarti indifferente: troppo maestosa, troppo studiata per non farti restare senza fiato. Ma forse, più di tutto, m’ha colpito quel tipo stravagante, pazzo ma geniale di Gaudì. Non sono un’esperta né d’arte né di architettura: mi limito a guardare e cercare di capire perché le opere siano state progettate e costruite in un determinato modo. E confesso che, in questo caso, se non avessi avuto l’audioguida, non avrei capito granché.
 Quest’idea che in natura non esistano linee dritte ma solo curve, il fatto di ricreare ambienti che ricordino il paesaggio che ci circonda, essere in una chiesa e sentirsi in un bosco: troppo affascinante per non lasciarsi incuriosire dalla filosofia di Gaudì.
 Le tinte tenui della facciata di Casa Battló mi hanno trasportato altrove. Nel mondo delle favole, lì dove i folletti si rincorrono tra loro, svolazzando nei prati verdi tra mille fiorellini colorati. Poi La Pedrera (o Casa Milà, dal nome dell’uomo d’affari che ne fu il committente), con la facciata di pietra e il terrazzo sinuoso, una creatura curvilinea. Tutto troppo strano, troppo lontano dalla classicità per poter impressionare il signor valigiesogni che, anzi, impressionato lo era, ma non proprio in senso positivo, ecco.

L’unico posto in cui non tornerei è la Fundació Joan Miró, “abbagliante tempio dell’arte dedicato a una delle stelle del firmamento artistico del Novecento”, recitava la guida. Io non sono un’integralista convinta della bellezza del solo classicismo (posizione da cui non si scosta di un millimetro il signor valigiesogni), ma certe opere erano troppo surreali, e anche un po’ surrealiste, per i miei gusti.


Meravigliosi, invece, la Catedral, il Museu d’historia de la ciutat, Palau Güell, l’Esglesia de Santa Maria del Mar, il Parc del la ciutadella, il Castell de Montjuϊc. Forse ho davvero voluto vedere troppo in troppo poco tempo.
 E poi c’erano i mercati: un tripudio di frutta fresca, pesce, frutta secca, pane, carne e un’accozzaglia di turisti pronti a scattar foto, noncuranti delle maledizioni scagliate dai poveri barcellonesi che cercavano d’acquistar quello che sarebbe diventato il loro pranzo pasquale. O, forse, è questo, la marea di turisti, ad avermi snervato e ad avermi fatto perdere la curiosità verso una città che meritava d’esser scoperta con più cuore e meno testa.
Perché poi, quando ci siamo trovati tra i vicoli di El Raval, in un’allegra pulperia, circondati da barcellonesi, crogiolandoci tra polpi, cannolicchi e frutti di mare, ottimi e a poco prezzo, lontani dal frastuono dei turisti e dalle code dei locali chic dell’Eixample (quartiere borghese, il più lussuoso della città), la serata c’è sembrata più bella. Solo che era il nostro ultimo giorno e allora ho pensato che a Barcellona ci tornerei volentieri, ma in modo diverso. Che non farei la fila per mangiare tapas nei locali imperdibili (dove, tra l’altro, il servizio era pessimo e affatto gentile), che eviterei i quartieri più blasonati e le vie più menzionate dalle guide. Vorrei tornare a Barcellona per vedere qualche altro museo (perché ce ne sono proprio tanti), vorrei perdermi alla ricerca di Plaça del Diamant (dove, alla fine, non sono andata), vorrei gustare di nuovo dei piatti semplici ma deliziosi nei localini meno noti, dove i titolari sono simpatici e accoglienti e, beh!, una cosa chiccosa vorrei proprio farla: spendere un po’ di soldi per un qualche spettacolo nel Palau della Música Catalana, edificio dalla facciata spettacolare. Che bello dev’essere l’interno!

Barcellona è alle spalle, siamo di nuovo immersi nel caos di tutti i giorni e una vocina dentro di me mormora che anche qui dovrei gustarmi di più alcuni momenti e non lasciarmi intrappolare dalla vita vissuta in velocità, quella che spazza via tutto e lascia un senso di vuoto la sera, quando ti stropicci gli occhi. Solo che quella voce spesso resta inascoltata e questo mi urta un po’…    





giovedì 1 aprile 2010

Take a break!

Il nuovo lavoro, quell’incubo chiamato GRA - Grande raccordo anulare - sempre bloccato, ora perché c’è un incidente, ora perché è lunedì mattina, ora perché, che diamine!, è la rush hour, e poi hai deciso di vivere fuori dalla Capitale? E beccati le conseguenze!
E le elezioni, il signor valigiesogni che è sempre fuori, anche lui per lavoro, quel trolley parcheggiato in corridoio perché tanto domani mi serve di nuovo e a che pro metterlo a posto? Il tempo scivola via e io che ancora non riesco a riprendermi dal ritorno dell’ora letale, ehm… legale.
E poi, oggi, a Roma c’è profumo di primavera, l‘aria frizzante e il cielo terso; in ufficio non è ancora arrivato nessuno e domani si parte per Barcellona. E la mia mente è già in viaggio…

mercoledì 31 marzo 2010

Lavoro: quella cosa inutile

“È una grande soddisfazione per me il pensiero che tu potrai risparmiarti di lavorare perché il lavoro non è per gli uomini, è per i ciucciarelli. Anche una fatica, magari, può dar gusto qualche volta, purchè non sia un lavoro. Una fatica oziosa può riuscire utile e simpatica, ma il lavoro invece è una cosa inutile e mortifica la fantasia.”
Elsa Morante, L’isola di Arturo
 
L’attenzione verso ciò che leggi cambia in base al momento in cui lo leggi. Oggi sorrido alle osservazioni dell’ Amalfitano ma, un mese fa, mentre ero lì, davanti al PC, ad inviare curriculum a destra e manca, le stesse parole m’avrebbero irritato non poco e, due settimane fa, spaesata di fronte al nuovo impiego, quelle osservazioni avrebbero suscitato una reazione ancora diversa. Nelle giornate del dopo elezioni, quelle in cui hanno vinto tutti senza aver proposto nulla, come faccio a non pensare all’importanza del lavoro?

La Costituzione e il lavoro

Articolo 1) L'Italia è una Repubblica democratica, fondata sul lavoro.

Articolo 35) La Repubblica tutela il lavoro in tutte le sue forme ed applicazioni.
Cura la formazione e l'elevazione professionale dei lavoratori.
Promuove e favorisce gli accordi e le organizzazioni internazionali intesi ad affermare e regolare i diritti del lavoro.
Articolo 36) Il lavoratore ha diritto ad una retribuzione proporzionata alla quantità e qualità del suo lavoro e in ogni caso sufficiente ad assicurare a sé e alla famiglia un’esistenza libera e dignitosa.
Articolo 37) La donna lavoratrice ha gli stessi diritti e, a parità di lavoro, le stesse retribuzioni che spettano al lavoratore. Le condizioni di lavoro devono consentire l'adempimento della sua essenziale funzione familiare e assicurare alla madre e al bambino una speciale adeguata protezione.

Da pochi giorni ho finalmente ricominciato a lavorare seriamente. Nuovo settore, nuova attività, un nuovo mondo da scoprire. Le giornate si sono riempite improvvisamente (per questa ragione ho trascurato un po’ il blog). Ho meno tempo per la mia famiglia, meno tempo per la lettura, meno tempo per la scrittura, meno tempo per lo sport. Eppure mi guardo allo specchio e rivedo il mio sorriso smagliante e gli occhi ridenti. Il lavoro è un diritto, dà dignità, dà energia, fa sentire realizzati, non è solo una fonte di guadagno e sostentamento. Chi ama lavorare lo sa bene.

Abbiamo votato. Mi aspetto che nei prossimi quindici giorni si parlerà di brogli, di riconteggio dei voti, si rifletterà sui risultati e probabilmente non ci saranno mea culpa. Va bene anche così. Però ciò che davvero mi auguro è che si cominci a pensare al bene di questo Paese, che si dia priorità ai problemi veri delle persone, che non si faccia la solita retorica, che si stanzino fondi per la sanità, per l’istruzione, per la ricerca. Che si faccia qualcosa di concreto prima di disamorarsi completamente della politica e un po’ anche di questo Paese.

martedì 9 marzo 2010

9 marzo

Da qualche tempo mi perdo nelle vite altrui. Sono attratta dalle analogie caratteriali di persone nate lo stesso giorno ma in epoche e luoghi differenti. Sbircio nelle loro vite, nelle loro scelte, nei segni distintivi del loro carattere.
 Il 9 marzo del 1454 nasceva a Firenze Amerigo Vespucci, uno di quei personaggi per i quali si può affermare che l’Italia è terra di navigatori e sognatori perché non solo esplorava ma, nel corso dei suoi viaggi, scriveva lettere che romanzavano le sue vicissitudini.
Altro esploratore, questa volta dello Spazio, fu Jurij Alekseevič Gagarin, anch’egli nato il 9 marzo del più vicino 1934 a Klušino, nell’allora Unione Sovietica; personaggio brillante dalle umili origini che, sfidando le difficoltà del tempo, dimostrò di poter volare sempre “più in alto”.
Esploratore nel mare dell’informatica fu Jef Raskin, nato il 9 marzo a New York City, uomo poliedrico, appassionato di musica e d’ingegneria, ideatore con Steve Jobs del Macintosh per la Apple Computer. Quando la Musica si sposa con la Scienza…
L’amore per la musica caratterizza altri nati il 9 marzo. Non sempre con esiti felici. Anche Umberto Saba, all’anagrafe Poli, nato il 9 marzo 1883, aveva un’insana passione per la musica classica e per il violino in particolare. Evidentemente era più paroliere che musico, infatti, ben presto abbandonò lo strumento per tuffarsi nelle parole. Una vita complessa ma non priva di successi.
Tanto per tornare all’attualità e menzionare qualche donna, il 9 marzo del ‘48 nasceva a Bra Emma Bonino, donna straordinaria, radicale nelle sue scelte, nota in ambito internazionale, attenta alle questioni umanitarie e battagliera sui temi dei diritti civili. E avete già capito chi voterò alle prossime regionali…
Il Web mi fa notare che il 9 marzo del 1908 nasceva anche l’Inter ma il mio disinteresse per il mondo del calcio mi spinge a tralasciare l’evento.
 
Ecco, ora a rileggere la lista di nomi illustri sfornati il 9 marzo, mi chiedo che c’entri io tra questi. Be’, il talento a volte viene riconosciuto solo dai posteri. Io sono sicura di averlo. Solo che è latente, ma tanto latente…

giovedì 4 marzo 2010

Quando la forma non è essenziale?

In questi giorni, a un ingenuo privato cittadino italiano viene da chiedersi: «Perché se io decido di partecipare a un concorso pubblico o a una gara devo rispettare i tempi di presentazione della domanda, le formalità e le procedure, pena l’esclusione dal concorso/gara, mentre se un gruppo di candidati alle elezioni non adempie tutte le procedure formali per la regolare presentazione della lista può permettersi di urlare che a prevalere debba essere la sostanza e non la forma, quando la forma non è essenziale?» Lo sanno i nostri governanti che se io presento la domanda per partecipare a un concorso pubblico, senza firmarla e apporre la data, vengo esclusa dal concorso? E non posso accusare nessuno se, a causa della mia negligenza, non ho potuto esercitare il mio diritto a prender parte a una competizione tra più soggetti, pur avendone tutti i requisiti.
Onestamente che la lista del PdL e il listino della Polverini nel Lazio, così come il listino Formigoni in Lombardia e tutte le altre liste a oggi escluse dalla competizione elettorale, vengano riammesse, m’importa poco. Che trovino pure l’ennesimo escamotage politico…
Ciò che più m’infastidisce è sentir parlare anche stavolta “dell’azione violenta e illegittima contro il PdL”, di tirar in ballo i “facinorosi” che avrebbero impedito l’accesso dei delegati del PdL all’interno del Tribunale (ma poi, dico, è un Tribunale mica casa mia. Non venite a raccontarmi che non c’erano forze dell’ordine lì intorno!). E via alla “prova di forza”in piazza contro chi vuole impedire a 14 milioni di persone di votare.
Avrei preferito che, per una volta, qualcuno avesse ammesso i propri errori, la negligenza nel rispettare le procedure e magari chiesto una soluzione politica di fronte a tanti pasticci. Sarebbe stato più onesto. A noi questo caos non sarebbe piaciuto lo stesso, ma l’avremmo digerito prima. 

lunedì 1 marzo 2010

Quante storie per un panino!

In una domenica nuvolosa in un paesello nei pressi della Capitale, il signor valigiesogni ai fornelli se la ride di gusto.

«Che hai?».
«Il PdL è stato escluso dalle elezioni a Roma perché non ha presentato in tempo utile la lista dei candidati». E giù a ridere.
«Ma va là! Dai, dimmi perché ridi!». Intanto la radio continua a chiacchierare. «Giuro! L’hanno appena detto. Faranno ricorso contro questa decisione antidemocratica!».
«Ma che cavolo vai dicendo? Se è da tre messi che hanno tappezzato la città e tutta la provincia di manifesti; ti pare che lasciavano scadere il termine senza aver presentato la lista?».

Stamani si parlava solo del pasticciaccio del Lazio. Che poi, del Lazio non è perché le liste del PdL per le altre province son state presentate regolarmente nei termini stabiliti dalla legge. Non ho ancora capito bene cosa sia successo perché, ovviamente, non possono farcelo capire. Pare che Alfredo Milioni, la persona incaricata dal PdL di depositare le firme a sostegno della Polverini, colto da un attacco di fame, sia uscito dal Tribunale per farsi un panino. E ‘sto panino deve esser stato piuttosto sostanzioso. Il signor Milioni avrebbe, forse, potuto inventarsene un’altra più credibile.

Chissà se lo immaginano loro, i nostri rappresentanti, il livello di nausea che proviamo, giorno dopo giorno, di fronte a questi spettacoli? Stando ai sorrisi compiaciuti che campeggiano attaccati in tutti gli angoli delle nostre città, direi di no. Non voglio neppure pensare alle beghe, ai giochetti di potere, agli interessi che ruotano intorno alla definizione delle liste, al nome da inserire per accontentare questo o quell’esponente, alla scelta del nome che più soddisfi gli interessi di pochi, infischiandosene del bene pubblico. Intanto noi, popolo sovrano, restiamo qui, inermi, ad ascoltare quello che vogliono raccontarci e ciò che è meglio tacere, perché in campagna elettorale è meglio zittire pure i programmi d’approfondimento giornalistico che trattano temi politici. Dovesse mai esser che un paio d’elettori si soffermi a pensare a ciò che viene detto e non viene fatto…

Che tristezza!

venerdì 12 febbraio 2010

La neve!

È un’alba silenziosa, con il cuscino insolitamente freddo e la pace tutt’intorno. Tendo l’orecchio per captare il rumore del camion della spazzatura che svuota i cassonetti bruscamente. Tutto tace. Mi alzo svogliatamente, metto su il caffè e alzo l’avvolgibile. L’immagine che ho di fronte non è ancora questa ma ci son tutti i presupposti affinché, da lì a un paio d’ore, lo diventi. 



Di sotto, nel giardinetto, ci sono grosse impronte lasciate da chi ha gironzolato un po’ su quel tappeto soffice. Dopo colazione, le impronte sono state ricoperte dai fiocchi che continuano a cadere. «La neve, la neve!! Usciamo!». Fiocchi magici: è la prima volta che i bimbetti dell’appartamento accanto non piangono, urlando come disperati, al loro risveglio.

Il signore di fronte inizia a spalare il vialetto, ma dopo un po’ poggia la pala e si pulisce gli stivali. Fatica inutile per ora. Meglio tornare al calduccio.


Tutto questo bianco mi distrae. C’è troppo silenzio, troppa poesia per dedicarsi alle attività quotidiane. Mi sembra d’esser tornata una scolaretta delle elementari con il grembiulino bianco e il fiocco blu. Allora nevicava più spesso e la mia maestra, terrorizzata all’idea di restar bloccata in quella piccola scuola, lassù in collina, si rifiutava d’andar a lavoro. Erano giornate davanti al caminetto, con i nonni, le minestre con il pane e, quando nonna era di luna buona, la polenta. Perché i paesetti in campagna sono ancora così, più suggestivi di un film in bianco e nero.

mercoledì 10 febbraio 2010

Donne, dududuuu…

Tutti dovremmo prendere i mezzi pubblici. No, magari non quotidianamente, che poi il fegato, le coronarie e il sistema nervoso potrebbero subire danni irreparabili. Di tanto in tanto, però, un salto sull’autobus, una capatina sulla metro e un viaggetto su uno di quei trenini locali, zeppi di pendolari, andrebbe fatto. I mezzi pubblici traboccano di storie, di serate passionali urlate in una conversazione telefonica con l’amica del cuore, di problemi familiari, di cattiverie e ripicche nei confronti dei propri colleghi. Tutti lì a chiacchierare, senza preoccuparsi del tono della voce che aumenta minuto dopo minuto e del vicino che finge di dormire tanto è l’imbarazzo nell’ascoltare involontariamente racconti di un’esistenza in cui è inciampato. A volte le voci di quegli sconosciuti rimbombano nella tua testa per giorni, mettendo in discussione le tue certezze.
In treno, a pochi minuti dalla stazione, prendo le mie cose e mi avvicino verso le porte. La diligenza (non è senso dell’umorismo, è un dato di fatto), come di consueto, si ferma proprio prima d’entrare in stazione: giusto quei dieci minuti sufficienti per perdere l’autobus che ti porta a casa.

«E state già pensando a un figlio?», dice la voce attaccata al lato destro della porta.
«…no…», esita, sotto un berrettino nero, la voce sul lato sinistro. «Per ora ci godiamo la magia dei primi mesi di matrimonio». 
Hanno più o meno la mia età, vaga inflessione romana, vestiti in modo sportivo, il neo sposo giocherella nervosamente con una bottiglietta di plastica vuota. Il treno non accenna a ripartire. Altre persone si avvicinano alle porte. «Tu quanti anni hai?», chiede bruscamente il tizio al neo sposo. Il ragazzo si guarda intorno imbarazzato. Evidentemente non ha voglia di condividere i propri affari con gli altri viaggiatori. «Trentaquattro», mormora. «Trentaquattro», ripete l’altro a tutta voce, qualora il particolare fosse sfuggito agli spettatori. «Vuoi un consiglio? Se vuoi avere dei figli non aspettare. Subito, senza perdere altro tempo che è già troppo tardi». L’altro accenna un sorriso. «Tua moglie che fa? Lavora?», chiede l’elargitore di consigli. «Sì», risponde l’altro sempre più infastidito.

«Falla smettere. A casa. Le donne non sono portate per il lavoro. Si stressano troppo. Io, con gli anni, ho maturato una filosofia d’altri tempi. Le donne devono pensare alla casa e all’educazione dei figli. Dobbiamo tornare ai valori di una volta. Dammi retta. Falle lasciare il lavoro e a casa!».

Do un bel morso alla lingua per evitare di dir la mia, che siamo in treno e quell’individuo lì neanche la merita una risposta. Volto lo sguardo altrove e incrocio gli occhi di un’altra donna che, dalla smorfia di dolore, deve averci dato dentro anche lei nel mordersi la lingua. Nello spazio tra le due carrozze nessuno commenta. Un silenzio pesante. Il neo sposo intanto cerca di nascondere il viso tutto rosso nel bavero della giacca. Il treno, centimetro dopo centimetro, ha raggiunto la stazione. Il neo sposo a tutta voce dice: «Beh, mi ha fatto piacere incontrati per caso dopo così tanti anni», come a dire a noi tutti: «Io quello lì non lo frequento mica! Non siamo mica amici! Ci conosciamo di vista. Non abbiamo niente da condividere. L’ho incontrato qui, ha attaccato bottone, che dovevo fare, fingere di essere diventato sordomuto?».
Sicché le donne non sono portate per il lavoro perché si stressano troppo. Gli uomini invece il lunedì mattina hanno sempre lo sguardo di chi sta per partire per le Maldive.

Nella lista dei valori che stiamo smarrendo, m’era proprio sfuggito quello della donna serva, che sforna figli e torte perché il marito così comanda. Perché, badate bene, l’osservazione non era un: «Mia moglie ha deciso di restare a casa poiché vuole occuparsi esclusivamente dell’educazione dei nostri figli. E io credo che abbia ragione». Bensì un: «Io ho deciso così perché è giusto così».
La prepotenza di quelle parole m’ha colpito. Sono sicura che gran parte dei miei coetanei non sia così (gli uomini che conosco sono esseri pensanti), che la libertà di scelta di una donna sia un diritto ormai acquisito, che all’interno di una coppia non si discuta più su quale sia il posto della donna perché non ne esiste uno stabilito. L’educazione dei figli, la cucina, le pulizie non sono più faccende da donne. Così come il “portare a casa la pagnotta” non è più prerogativa del maschio. È da anni che, fortunatamente, non funziona più così. Le donne non lavorano, esattamente come non lavorano gli uomini, per ragioni congiunturali, disoccupazione, problemi di salute, scelte personali. Mai per imposizione del compagno.
Esistono delle persone, però, che la pensano come il viaggiatore sconosciuto. Non ci avevo mai riflettuto.
Poi mi soffermo sull’altra faccia della questione: la donna che accetta che sia qualcun altro a decidere per lei. La donna che crede che i suoi desideri siano secondari, la donna che permette al proprio uomo di parlare così. E l’amarezza aumenta.

mercoledì 3 febbraio 2010

Donne ungheresi

Generalmente lascio passare un po’ di tempo prima di commentare un libro appena letto. Le impressioni a caldo sono sempre dettate dall’istinto e non da un’attenta analisi, che richiede invece una riflessione più approfondita. Generalmente mi ripropongo di leggere qualcos’altro di un autore che m’ha colpito (in negativo o in positivo). Poi finisco per imbattermi in altri titoli, altre storie, altri viaggi e vengo meno ai buoni propositi.
La scoperta di Magda Szabò ha fatto crollare tutti i miei “generalmente”.
Spinta dall’entusiasmo di Fabio, il mio guru della letteratura, lo scorso anno ho acquistato La porta, il romanzo che ha fatto conoscere questa splendida scrittrice ungherese anche in Italia. Il volumetto è rimasto per un pezzo negli scaffali di casa. Poi, nel bel mezzo di un trasloco, m’ha chiamato. Insomma, il momento era di quelli meno opportuni, con casa nuova da tinteggiare, i mobili Ikea da montare, un nuovo lavoro da cercare e tutte le preoccupazioni di chi vede intorno a sé solo disordine. Fatto è che, nonostante la stanchezza, l’idea d’immergermi alla sera nelle pagine della Szabò ha rappresentato in questo periodo la più bella ricompensa per le fatiche della giornata.
Terminato La porta, sono stata colta da un leggero senso d’ansia. Mi son ritrovata dopo un paio di giorni a prendere in prestito dalla biblioteca comunale La ballata di Iza. Così, i lavori iniziati sotto lo sguardo attento di Emerenc Szredàs, si sono conclusi in compagnia dei profondi occhi blu di Etelka e del rigido ordine di Iza. Chi ha già avuto il piacere di leggere i due romanzi, sa bene di cosa sto parlando. Chi ha rimandato l’incontro con quest’autrice, scomparsa a Budapest poco più di due anni fa, dovrebbe rompere gli indugi e farsi trasportare da una penna che riesce a descrivere atmosfere lontane, di un paese non così lontano eppure così sconosciuto. I due romanzi hanno molti aspetti in comune: le protagoniste sono donne, diverse ma energiche, passionali, razionali, sempre donne con una forte personalità. In entrambi è presente l’impegno politico dei protagonisti e la storia che fa capolino nella finzione; in entrambi emerge la forza della scrittura, la potenza dell’immaginazione in contrapposizione col senso pratico dei lavori manuali; in entrambi si sente un desiderio di rivalsa, la consapevolezza di poter determinare il proprio Destino, di poter riscattare le ingiustizie subite dai propri padri.

Sono pagine amare ma sono anche pagine in cui si trova tutto: amore, odio, rabbia, egoismo, frustrazione, provincialismo, faticosa ricerca della felicità, denuncia di una società legata al pettegolezzo e alle convenzioni.
Osservazione: l’edizione de La Ballata di Iza che ho preso in prestito è piena di refusi. Mi auguro che l’Einaudi abbia provveduto alla correzione dell’opera per le ristampe successive perché, far pagare 18 euro un libro così poco curato, non è una sciatteria. È da criminali.

venerdì 22 gennaio 2010

L'arte di correre

Ho scoperto che in Italia i seguaci di Haruki Murakami, quelli che corrono in libreria per poter acquistare l’ultimo suo libro, sono moltissimi. Io non sono tra questi. Non perché ce l’abbia con la letteratura giapponese o perché non mi piaccia lo stile dello scrittore. Per pura ignoranza: non mi è mai capitato di leggere le sue opere in precedenza e non ne sono mai stata attratta. Ho acquistato “L’arte di correre” per la mia passione verso il mondo della corsa non per la prosa di Murakami. Però non me la sento di affermare, come fa l’Observer nella quarta di copertina, che “la voce narrante convince per schiettezza e vivacità e una volta conclusa la lettura si resta incantati dalla sua grazia semplice e genuina”. Il libro è scorrevole, qualche volta un po’ troppo ripetitivo ma, essendo una sorta di raccolta di memorie, come lo stesso Murakami la definisce, credo che le ripetizioni siano volute. L’intento è quello di ribadire l’importanza della corsa nella vita dell’autore e la necessità di esercitarsi costantemente con tanto impegno perché potenziando le capacità fisiche si può dar il meglio nella scrittura. 
Sono arrivata alla corsa per caso. Ero all’ultimo anno delle scuole medie. La nostra scuola partecipava a una sorta di torneo tra gli istituti locali e tutti eravamo chiamati a scegliere la disciplina in cui gareggiare. Scelsi la corsa campestre perché mi sembrava l’unica cosa facile in cui potermi cimentare. Iniziai a correre con andatura lenta, respiro regolare, infischiandomene delle compagne che mi superavano rapidamente. A metà percorso iniziai ad accelerare, alcune delle ragazze che erano partite sfrecciando si erano già arenate. Arrivai per prima, staccando senza difficoltà le altre. Da allora la corsa non mi ha più abbandonato.
Per natura, anch’io come Murakami, mi son sempre considerata una persona lenta. Ho bisogno di un po’ di tempo per fare miei alcuni concetti, leggo lentamente, torno spesso su ciò che ho letto, scrivo di getto ma poi ho bisogno di tempo per correggere e rivedere quanto scritto. Prima di capire se un libro, un film, una persona mi piacciono c’impiego un po’. Ho bisogno di metabolizzare alcune informazioni. È sempre un processo lungo ma, una volta iniziato il percorso, avanzo senza esitazioni per la mia via. Con la corsa è la stessa cosa. Non sono per i 100 metri, i percorsi veloci in cui dai tutto e subito. Sono per le lunghe distanze. Ho bisogno di sentire prima il mio corpo, la reazione dei miei muscoli, la regolarizzazione del mio respiro e poi posso andare. Salite, discese, percorsi misti e anche uno sprint finale quando so di essere vicina al traguardo.  
L’attività fisica è diventata una parte fondamentale della mia vita. Ho scoperto che correre mi aiutava a sorridere, a ponderare le mie decisioni, ad affrontare con più ottimismo gli esami universitari, le discussioni con i miei genitori, i colloqui di lavoro, il terrore di non farcela nei momenti critici. Correre è esercizio fisico ma, prima ancora, alleggerimento della mente e dell’anima. È come se, metro dopo metro, le preoccupazioni evaporassero fino a raggiungere un momento di assoluto non pensiero. La mente è sgombra, si ossigena e può riprendere ad analizzare le cose in modo logico, senza la faticosa sovrapposizione dei pensieri più disparati. E poi è uno sport piuttosto economico che t’accompagna dappertutto. Si corre in genere da soli ma non ci si sente mai soli. Il paesaggio cambia, la città assume colori diversi, e se poi si ha la fortuna di correre in piccoli borghi o in campagna l’insieme d’immagini che si immagazzinano danno l’energia sufficiente per affrontare lunghi periodi bui.
Murakami racconta le sue maratone. La lunga preparazione, i viaggi per raggiungere città diverse, le avversità meteorologiche, le delusioni, gli insuccessi. Le sue parole m’hanno dato un ulteriore incentivo per trasformare quell’attività, che ormai pratico costantemente da anni solo per piacere personale, in qualcosa in più. La voglia di mettersi alla prova, cercare nuovi stimoli, confrontarsi con un traguardo da raggiungere. O, semplicemente, il piacere di correre una volta l’anno in una città diversa, ora che la vita mi sembra così immobile.
Visto dall’esterno il nostro modo di vivere apparirà forse insulso, privo di fondamenta e di significato. Penso che sia una cosa alla quale dobbiamo rassegnarci. Ma, anche ammettendo che compiamo solo una serie di atti vuoti, resta il fatto reale che ci impegniamo. Non importa se otteniamo dei risultati o meno, se facciamo bella figura o no, in fin dei conti l’essenziale, per la maggior parte di noi, è qualcosa che non si vede ma si percepisce nel cuore. E spesso le cose che hanno veramente valore si ottengono attraverso gesti inutili. Le nostre azioni non saranno forse proficue ma di sicuro non sono stupide. […]

Come vengano giudicati il tempo che ottengo in gara e il mio posto in graduatoria, come venga considerato il mio stile, è di secondaria importanza. Ciò che conta per me, per il corridore che sono, è tagliare un traguardo dopo l’altro, con le mie gambe. Usare tutte le forze che sono necessarie, sopportare tutto ciò che devo e alla fine essere contento di me. Imparare qualcosa di concreto – piccolo finché si vuole, ma concreto – dagli sbagli che faccio e dalla gioia che provo. E gara dopo gara, anno dopo anno, arrivare in un luogo che mi soddisfi.

venerdì 8 gennaio 2010

Segnali

Capisci che qualcosa sta cambiando nel momento in cui sul comodino compaiono magicamente riviste tipo Cose di casa e Casa in fiore.
Capisci che la costruzione di un nuovo nido è in corso quando l’icona più cliccata sul desktop del PC è quella relativa al programmino dell’Ikea “per progettare e ottimizzare al meglio i propri spazi”.
Capisci che qualcosa di strano sta accadendo quando vedi tuo marito trasognato che continua ad accarezzare una parete tinteggiata da qualche giorno. È ancora affetto dalla sindrome del pennello. Ma non c’è da preoccuparsi. Lo conosci abbastanza bene da sapere che presto la sindrome di cui sopra sarà sostituta da quella dell’aggregatore di mobili, da quella dell’elettricista, del curatore di dettagli d’arredo…

giovedì 7 gennaio 2010

Un po' di colore

C’è aria di trasloco in casa valigiesogni.
Tra studio, lavoro, volontariato, precariato, questo è appena il quindicesimo che affronto, escluse, ovviamente, le situazioni in cui, fra un momento di disperazione e l’altro, sono tornata a casa dei miei.
È la prima volta però in cui trasloco con qualcuno (il signor valigiesogni, ovviamente). E la prima volta in cui mi insedio in un appartamento non ammobiliato. Novità significative che annullano quella che io credevo essere una discreta esperienza in materia di trasloco.
Così l’anno è iniziato tinteggiando. Già perché, a detta del signor valigiesogni, “fare le cose da sé dà più soddisfazione”. Indubbiamente, però, al momento, il mio polso destro non la pensa allo stesso modo.
Stamane, mentre fuori la pioggia cadeva incessantemente, nella nostra futura cucina splendeva il sole; giallo, giallisssimo: un calore che più caldo non si può. Nello studio, lentamente, arrivava la primavera, d’un verde da far invidia ai prati irlandesi sul finire della stagione delle piogge. Poi il glicine iniziava a riempire la stanza da letto e l’azzurro a inondare il corridoio. 
Stasera, accovacciata nella sala, tanto per non risparmiare neppure le ginocchia, ho iniziato a raschiare gli schizzi di vernice sul battiscopa. Fuori, un cielo indecifrabile. Si direbbe sereno ma dei nuvoloni scuri a forma di canguro saltellano sollevando un vento gelido.
Le lucine intermittenti disegnano il perimetro degli appartamenti dei nostri futuri vicini. Non un suono, non una voce, non un profumo di cucina. Solo lucette colorate. Qualcuna è fulminata. In fondo oggi è l’Epifania che tutte le feste porta via.