venerdì 11 febbraio 2011

Via del Corno

«Un anno fa anch’io ero più felice. Eppure non sapevo che esisteva Maciste, non sapevo che esistevi tu, e che esisteva via del Corno me lo diceva Bianca, ma io la pensavo una strada come le altre. Non c’ero mai passato prima di allora. Una sera volli venirci apposta, come un passante qualsiasi. Ma non mi fece nessun effetto. Bisogna viverci per capire cosa sia!».
«È una strada piuttosto trascurata» ella disse e, come per sfuggire ad una suggestione ch’ella stesa non sapeva da cosa le nascesse, aggiunse:«con tutto lo spettegolare e la miseria della sua gente!».
Allora egli disse un pensiero non suo, ma ch’egli aveva fatto suo dopo di averlo appreso. Disse: «Ma anche tu ed io siamo della stessa pasta. E ci siamo liberati da tanti loro difetti, chi ci dice che non abbiamo perduto qualcuna delle loro buone qualità? Qualunque cosa accada, anche se davvero andassimo nelle stelle, via del Corno rimarrà sempre dentro di noi. Ma non dubitare: resteremo sulla terra!».

“È una strada piuttosto trascurata”, dev’esser per questa ragione che non ho mai notato via del Corno.  Eppure a Firenze ci son stata diverse volte. Una via laboriosa e vivace, con le donne che ciarlano, i bimbi che si rincorrono, Maciste che lavora nella mascalcia, il sidecar parcheggiato fuori, il Cecchi spazzino che gira per le strade, il Nesi carbonaio, lo Staderini, ciabattino, il Ristori che dall’Albergo Cervia tutto controlla; le ragazze di via del Corno, gli Angeli Custodi, la malinconia dei cui occhi tradisce un passaggio troppo repentino dagli svaghi della fanciullezza alla maturità precocemente raggiunta.

La lanterna dell’Albergo Cervia che si spegne, la luna che illumina le biche della spazzatura e i gatti che vi banchettano.“Ha cantato il gallo del Nesi carbonaio”…

È tutto così Cronache di poveri amanti, l’affresco di una via e di tante vite. Il clima della strada, le voci, i rumori vengono ricreati pagina dopo pagina. Bisogna darsi una scrollata per uscire dalla storia e tornare nella quotidianità. Ma poi, è tanto diversa la quotidianità?

 «Cronache di poveri amanti doveva essere il mio primo libro; fu invece il sesto, riuscii a scriverlo soltanto nel ’46, tutto di filato, come inseguendo i fatti che ormai sembrava si disponessero da soli sulla pagina, dopo che per vent’anni li avevo nutriti di memoria e di fantasia». 
Si avverte questa continuità di scrittura, un romanzo corale in cui non ci sono pause. Una vicenda ti porta nell’altra, le vite che si intrecciano e i personaggi che ti raccontano le loro storie.

“Forse soltanto i muri dormono, la notte, in via del Corno. Le persone no. O soltanto quelle che non hanno pensieri. Ma chi non ha pensieri, in via del Corno? “

Nella Firenze degli anni Venti, la povertà e la fatica dei cornacchiai si mescolano alla passione per la politica, agli umori contrastanti nei confronti di quei cambiamenti che stanno stravolgendo l’Italia. Ascoltiamo la voce del compagno Ugo:

 “Tutti i ricchi e i borghesi sono passati dalla parte dei fascisti, e i preti hanno alzato la tonaca e li benedicono.” Sono forse cose nuove? Ha detto che siamo rimasti in pochi e che il popolo non ha una coscienza di classe sviluppata. Voleva dire che il popolo ha paura dei preti e dei signori? Certo, finché saranno i preti ed i signori a dargli da mangiare!
E, dall’altro lato, i pensieri dello squadrista Osvaldo nella notte dell’Apocalisse:
Aveva immaginato le azioni squadriste accompagnate da canti, da gridi in cui anche gli urli dei feriti erano a solo di gioia, le revolverate mortaretti paesani, e gli squadristi erano ragazzi scalmanati e festosi, nelle nere camicie, col teschio dalla parte del cuore: un portafortuna. Quella corsa veloce e silenziosa nella notte, per i lungarni deserti, ove le luci dei lampioni perdevano d’intensità sotto la luce lunare, gli ricordava invece il cimitero del paese. 
Un romanzo così intenso che si ha paura di poterlo sciupare raccontandolo con parole diverse da quelle di Vasco Pratolini. 
Ora è tempo di lasciare via del Corno e di dirigerci in campagna, verso Greve. 
Spuntava l’alba al di là della vallata e l’aria era fresca e dava loro un nuovo vigore. Incontrarono i calessi,le biciclette , i contadini a piedi nudi ed i pantaloni rimboccati, le contadine  a piedi  nudi con la testa fasciata dalle pezzuole colorate, i carri dei buoi; e passando davanti alle case coloniche, le galline pigolavano nell’aia, i bambini avevano in mano la fetta di pane cosparsa d’olio e sale, le vecchie filavano da secoli con la conocchia, sedute su una sedia fuori delle porte, le donne tiravano l’acqua dal pozzo e si voltavano fermando  la carrucola – e gli asini al bindolo e i buoi aggiogati che tiravano l’aratro e i bifolchi che li aizzavano con la voce, li stimolavano con un giunco. E tutti, vedendoli passare: i bifolchi di sotto il ciglio della strada, le massaie con le mezzine grondanti d’acqua nelle mani, le nonne col loro antichi strumenti come fate superstiti, i bambini togliendosi il moccio col lembo del grembiule, le donne e gli uomini diretti ai campi con gli arnesi sulla spalla e sotto l’ascella, e i ciclisti, i fattori sui biroccini, gli dicevano: «Felice giorno! Felice giorno!».  
Si può commentare una descrizione come questa?

Qui alcune informazioni interessanti su Vasco Pratolini e sulle sue opere.

martedì 1 febbraio 2011

Memorie di famiglia

Arrivare alle soglie dei trentacinque anni con ben quattro nonni in vita è una gran fortuna. Se ci rifletti, hai la consapevolezza di essere un privilegiato, ma sei così avvezzo a sapere che i tuoi nonni sono lì, da sempre, che neppure ti lasci sfiorare dall’idea che, prima o poi, anche loro lasceranno questa terra. Sono persone energiche, ne hanno viste di ogni; mio nonno paterno, a ottantasette anni, parla ancora della campagna in Africa, del referendum per “cacciare il Re”; i miei nonni materni, più cagionevoli di salute, hanno affrontato con il sorriso lunghi ricoveri ospedalieri e malori vari. «Sono così abituati ad entrare e uscire dagli ospedali che la prendono con allegria. Neanche andassero in villeggiatura», scherza mia mamma. Ad un certo punto, ti convinci del fatto che siano immortali.  
Una decina di giorni fa, è venuta a mancare la mia nonna materna. Il cuore aveva iniziato a giocarle brutti scherzi. Risoluta come sempre, ha autorizzato l’intervento per l’applicazione di più bypass (quattro), “perché così non ce la faccio più. Una volta deve essere”. Nessuno si è stupito della sua decisione, così come nessuno si è stupito dalle perfetta riuscita di un intervento tanto delicato sul corpicino gracile di una ottantenne.
Forse quel corpo, però, s’era stancato dell’andirivieni da un ospedale all’altro e il 31 dicembre, sebbene il cuore avesse ripreso a battere e il cervello a funzionare, ha deciso di fermarsi. Fegato e polmoni hanno iniziato a scioperare e si sono aperte le porte della terapia intensiva e, con esse, un inutile accanimento terapeutico che forse è servito solo a prolungare le sue sofferenze e far star male dentro i suoi figli e mio nonno.
 «Compito della Medicina è tentarle tutte, fino alla fine, per cercare di guadagnare qualche giorno in più». Non so come si faccia a pensare che quel mese in più, con un corpo inerme attaccato a così tanti macchinari, sia stato un mese di vita guadagnato.
Mio nonno, a ottantadue anni, per un mese si è seduto nell’auto dei figli, ha percorso duecento chilometri, tra l’andata e il ritorno, per poter accarezzare tutte le sere sua moglie. Indossava guanti, mascherina e camice verde e aspettava pazientemente il suo turno. Mio nonno che ha baciato dolcemente quel corpo privo di vita, che ormai non somigliava più a quello di sua moglie, avvolto in un lenzuolo, chiuso da una targhetta con un numero e l’ora del decesso.
Mio nonno che, fortunatamente, nonostante l’apparecchio acustico sente pochissimo. Così almeno gli sono state risparmiate le offerte di preventivi da parte del personale dell’ospedale che già parlava dei costi delle agenzie funebri quando mia nonna era ancora in vita. Purtroppo non gli è sfuggito il fatto che le sale di commiato di quell’ospedale non sono accessibili al pubblico (a quanto pare), ma se dai una cinquantina d’euro alla “persona giusta” il divieto viene meno. Anzi, se alzi la posta, ti riservano addirittura una cappella. Niente di strano nel vedere “la persona giusta”, un semplice dipendente pubblico, mentre parcheggiava un suv da sessantamila euro o su di lì… Il tornaconto economico non risparmia neppure la morte.

Alcuni ritenevano che mia nonna fosse una donna cattiva, dura di cuore.
Mia nonna era una donna d’altri tempi, ancorata ai suoi valori e alle sue tradizioni, non aveva timore nel professare le sue idee a voce alta e nel difenderle. Profondamente religiosa, non si era fatta intimidire dal parroco della sua chiesa, accusandolo di voler ricavare profitti economici lì dove non c’era nulla su cui lucrare. Avevano finito con il discutere, ma lei non aveva fatto un passo indietro. Sapeva ciò che diceva.
Non aveva battuto ciglio ma so che la notizia del mio matrimonio civile l’aveva addolorata. A modo suo, però, aveva compreso le nostre ragioni e non aveva esitato nel regalarmi una delle coperte del suo corredo. «È colorata, come piacciono a te. L’ho messa sul letto solo il giorno del matrimonio di tua mamma. Sei la prima nipote femmina, la prima a sposarsi, e voglio che la conservi tu, come ricordo di tua nonna».
 Il suo ultimo Natale l’ha trascorso in ospedale, nell’attesa dell’intervento. Da lì ha commissionato l’acquisto del regalo di Natale per i figli e ha chiesto che qualcuno le portasse parte della sua povera pensione, «perché anche se sono qui, è Natale, e i nipoti che vengono a trovarmi si aspettano di ricevere un regalo. Piccolo ma è un pensiero per tutti. In parti uguali».
Cara nonna, se avessimo potuto t’avremmo risparmiato quel mese di inutili sofferenze. Non eri cattiva, avrai solo commesso qualche errore, come noi tutti del resto; eri una donna grintosa dal corpo esile, restia nel manifestare i propri sentimenti ma non per questo priva di cuore. Se chiudo gli occhi, ti vedo col tuo grembiule stretto in vita, affaccendata tra i fornelli e il lavello, e il tuo solito: «Ma non prendi nulla? Dai, almeno un caffè!»
Ciao nonna.