venerdì 22 aprile 2011

Lessico famigliare

Ho scoperto Natalía Ginzburg grazie a due amiche blogger. Non che prima ignorassi la sua esistenza. Tutt’altro. Lessico famigliare m’ha guardato ripetutamente in diverse librerie nel corso degli anni. Eppure non mi incuriosiva. Prendevo il volume, scorrevo la quarta di copertina e lo rimettevo a posto.
Poi mi sono imbattuta in un paio di post che parlavano della Ginzburg e in uno scambio di opinioni tra Duck e Gabrilu. Ho dovuto acquistare qualcosa dell’autrice immediatamente. Così, sono partita dall’opera più celebre (non è un buon criterio di scelta, lo so; ma stavolta non me ne sono pentita). 
“Non avevo molta voglia di parlare di me. Questa, difatti, non è la mia storia ma piuttosto, pur con vuoti e lacune, la storia della mia famiglia. Nel corso della mia infanzia e adolescenza, mi proponevo sempre di scrivere un libro che raccontasse delle persone che vivevano, allora, intorno a me. Questo è in parte quel libro: ma solo in parte, perché la memoria è labile, e perché i libri tratti dalla realtà non sono spesso che esili barlumi e schegge di quanto abbiamo visto e udito”. 

Basta leggere l’Avvertenza per farsi un’idea del libro nel quale ci si sta per tuffare. Un libro di memorie che, a tratti, sembrano essere irreali. Già la storia di una scrittrice che, originariamente, si chiama Natalía Levi non può che incuriosire. Se poi la scrittrice racconta dell’amicizia con la famiglia Olivetti, delle frequentazioni con Vittorio Foa, di quando Turati si nascose in casa loro e di Cesare Pavese che era solito arrivare mangiando le prime ciliegie, non ti resta altro che pensare “Che tempi! Quanta vitalità in quell’Italia lì”.
Non aveva voglia di parlare di sé Natalia Ginzburg. Ed anche questo sorprende nell’Italia di oggi. Stupisce il modo in cui la Ginzburg racconta, con poche parole, tutti i fatti che la riguardano direttamente. 
“Ci sposammo, Leone ed io; e andammo a vivere nella casa di via Pallamaglio”.
Punto.

“Arrivata a Roma, tirai il fiato e credetti che sarebbe cominciato per noi un tempo felice. Non avevo molti elementi per crederlo ma lo credetti. Avevamo un alloggio nei dintorni di piazza Bologna. Leone dirigeva un giornale clandestino ed era sempre fuori casa. Lo arrestarono, venti giorni dopo il nostro arrivo; e non lo rividi mai più”.
Punto. Nessun sentimentalismo, nessun giro di parole, nessun ciarlare intorno a stati d’animo e sensazioni. Ti sembra quasi stia parlando di qualcun altro, non del suo matrimonio, della sua vita complicata, del suo dolore. E in quelle poche parole è racchiuso tutto ciò che, forse, a tentare di descriverlo, sarebbe andato smarrito.