venerdì 17 giugno 2011

La tía Julia y el escribidor

Sono una lettrice disordinata, saltello da un autore all’altro, dal Canada all’Italia, dall’Ottocento al 2011, dall’editore sconosciuto ai soliti noti. Ho provato a disciplinare le mie scelte, poi mi sono arresa barricandomi dietro l’idea che il piacere di leggere deve essere regolato da un solo principio: leggo ciò che mi incuriosisce nel momento in cui mi incuriosisce.
In fondo, ho sempre ceduto al richiamo dei libri: è un po’ come se fossero loro a scegliermi, e non il contrario.
A La Zia Julia e lo scribacchino sono arrivata non tanto per la celebrità del Nobel per la Letteratura 2010 a Mario Vargas Llosa quanto per alcune gustose recensioni scritte da amici anobiiani e per la mia voglia di Perù.

Mai stata in territorio andino ma il viaggio in Perù è uno dei miei sogni da anni. E il Perù, o meglio, i quartieri di Lima spuntano fuori da questo romanzo. 
L’Università di San Marcos, Miraflores, il Callao, l’impanata, il riso e le uova fritte, e poi i bicchierini di pisco, i caffeucci del centro, i romanzi radiofonici. Ecco, i romanzi radiofonici.

«Perché ti piacciono tanto i romanzi radiofonici?» domandai un giorno alla nonnina. «Cos’hanno che non hanno i libri, per esempio?»
«È una cosa più viva sentir parlare i personaggi. È più reale», mi spiegò dopo aver riflettuto. […] Tentai un’indagine simile in altre case di parenti e i risultati furono vaghi. I romanzi radiofonici piacevano perché erano divertenti, tristi o scioccanti. Perché facevano sognare, vivere cose impossibili nella vita reale, perché mostravano alcune verità. Quando domandai loro perché li amavano più dei libri, protestarono: che sciocchezze, non erano paragoni da farsi, i libri erano la cultura, i romanzi radiofonici semplici bambinerie per passare il tempo.

La Zia Julia non è solo una dichiarazione d’affetto per il mondo della radio. È anche un romanzo un po’ autobiografico. Forse. Poi, è una travagliata e scandalosa storia d’amore tra un sognatore diciottenne peruviano e una trentaduenne boliviana divorziata; è la storia di una scribacchino che si perde tra le sue invenzioni letterarie; è una raccolta di storie in cui la realtà si mescola con la finzione.
E il Perù, alla fine, non ne esce tanto bene. O forse sì.
“Il Perù mi è sempre sembrato un paese di gente triste”.
Infatti,
“pensavo di continuare a vivere in Europa per un periodo indefinito”
però
“il problema era che tutto quanto scrivevo si riferiva al Perù. […] Ma non riuscivo neppure ad immaginare di vivere a Lima. […] Per questo, il baratto concordato con Caretas a base di articoli in cambio di due biglietti aerei l’anno, fu provvidenziale per me. Quel mese che trascorrevamo in Perù, ogni anno, generalmente in inverno (luglio o agosto), mi permetteva di tuffarmi nell’ambiente, nei paesaggi, negli esseri sui quali avevo tentato di scrivere negli undici mesi precedenti. Mi era enormemente utile, un’iniezione di energia; udire di nuovo parlar peruviano, ascoltare intorno a me quelle perifrasi, quei vocaboli, quelle intonazioni che mi rinstallavano in un ambiente cui mi sentivo visceralmente vicino, ma da cui, comunque, mi ero allontanato, e dal quale ogni anno perdevo innovazioni, risonanze, codici.” L’eterno rapporto di odio e amore che ci porta ad allontanarci dalla nostra terra ma a non separarcene mai. La necessità di un compromesso per poter trovare il proprio spazio nel mondo senza dover estirpare del tutto le proprie radici.

venerdì 3 giugno 2011

Never mind

Riemergo dall’ennesimo periodo in cui il lavoro ha avuto la meglio su tutto il resto.
Non capisco come possa cascarci tutte le volte; non capisco come possano le incombenze lavorative inghiottire la corsa, i libri, la scrittura… Non capisco come il lavoro possa confondersi con la vita. Accade puntualmente, e i buoni propositi volano via.

Un giorno di festa. Il sole illumina la stanza da letto; accoccolata al signor valigiesogni rimugino su questi pensieri. Poi, in tempo di tagli, aziende che chiudono, mobilità e cassa integrazione, chissà perché penso al rapporto annuale dell’Istat.
«In base ai criteri dell’Istat noi siamo poveri». Lascio la frase a mezz’aria, senza punti interrogativi, sospensivi, né un punto e basta.
«Se guardano l’entità dei nostri consumi, forse sì», fa il signor valigiesogni, evidentemente perso in pensieri tutt’altro che sognanti.
Pausa.
Signora valigiesogni: «Io però non mi sento povera».
Signor valigiesogni: «Neanch’io. Riesco sempre a pagare le tasse».