Negli ultimi giorni di dicembre, una delle mie consuete corse serali è stata bruscamente interrotta da un dolore lancinante al ginocchio sinistro. Ho sentito il mio corpo vacillare e la sensazione che una corda dentro di me venisse pizzicata troppo, fino a spezzarsi. Avevo quasi terminato l’allenamento, mi sono scusata con i miei compagni e me ne sono tornata a casa lentamente, prestando attenzione a quei nuovi messaggi provenienti dai miei arti. Sono un’ottimista di natura, però ho subito percepito che, per quanto potesse essere un trauma lieve, sarei stata costretta ad interrompere per qualche tempo gli allenamenti e a rinunciare alla corsa di Capodanno.
“E che sarà mai?!”, penserete voi. Per un appassionato, iniziare l’anno con una bella corsa è un rito irrinunciabile. È di buon auspicio per tutto l’anno. E qui non siamo superstiziosi, però…
Presa da irrefrenabile nervosismo, non potendo correre ma riuscendo a camminare senza avvertire troppo dolore, aspettando impazientemente di fare i dovuti accertamenti e cominciare la terapia, ho sostituito gli allenamenti con delle lunghe camminate. All’inizio è stato un modo per scaricare la tensione della giornata e allontanare i cattivi pensieri nell’attesa di capire cosa avesse il mio ginocchio. Sera dopo sera, però, queste lunghe camminate nell’aria gelida mi hanno riconciliata con il mondo.
Camminare da soli, tra i vicoletti silenziosi e poco illuminati del paesino in cui vivo, aiuta a ritrovare sé stessi, a risvegliare curiosità, a rimettere in moto le idee; riemergono ricordi del passato, nostalgie, ma si hanno anche improvvise illuminazioni, risposte ai piccoli problemi del presente.
A volte ci si fa accompagnare dalla musica, altre volte si preferisce il silenzio e si fantastica dietro quegli stralci di vita che fuoriescono da un’imposta che si sta chiudendo o da un uscio su cui un signore sta fumando mentre in casa qualcuno lava i piatti e i ragazzini bisticciano.
Nel weekend ci si può permettere il lusso di scegliere percorsi meno urbani. E lì è la natura ad avere il sopravvento. Sono le stesse vie che percorro di corsa da almeno tre anni. Eppure non avevo mai fatto caso alla bellezza di quel porticato (“Chissà da quanto tempo non viene aperta quella casetta? Chissà perché nessuno si siede su quella panchina di legno, così lontana dal mondo, a leggere qualcosa?”), a tutte quelle mucche, quegli asini, quei cavalli che pascolano liberamente qui intorno.
Nel weekend ci si può permettere il lusso di scegliere percorsi meno urbani. E lì è la natura ad avere il sopravvento. Sono le stesse vie che percorro di corsa da almeno tre anni. Eppure non avevo mai fatto caso alla bellezza di quel porticato (“Chissà da quanto tempo non viene aperta quella casetta? Chissà perché nessuno si siede su quella panchina di legno, così lontana dal mondo, a leggere qualcosa?”), a tutte quelle mucche, quegli asini, quei cavalli che pascolano liberamente qui intorno.
Camminando, camminando, mi è venuta voglia di leggere questo libretto, acquistato alcuni mesi fa,
“Il mondo a piedi. Elogio della marcia”, scritto dall’antropologo francese David Le Breton.
Un libriccino che osserva i diversi aspetti del camminare, a partire proprio dal perché camminare. Le Breton traccia vari itinerari: interiori, geografici, agiografici, storici, senza tralasciare le lunghe marce, anche quelle estreme, compiute da personaggi avventurosi del Cinquecento e dell’Ottocento, esploratori prima che camminatori.
Non vengono trascurati neppure i pellegrinaggi poiché il peregrinus è lo straniero, colui che non è a casa propria, posto di fronte ad un mondo che sfugge ad ogni familiarità.
Non vengono trascurati neppure i pellegrinaggi poiché il peregrinus è lo straniero, colui che non è a casa propria, posto di fronte ad un mondo che sfugge ad ogni familiarità.
Le Breton ci spinge a riflettere su quanto oggi, paradossalmente, camminare sia diventato un gesto rivoluzionario:
"Perdere tempo a camminare appare come un atto anacronistico in un mondo dominato dalla fretta. Poiché introduce una dimensione dilettevole del tempo, come dei luoghi, il camminare rappresenta uno scarto, uno sberleffo alla contemporaneità".
Non siamo noi che facciamo il viaggio, è il viaggio che ci fa e ci disfa e ci inventa. E se qui il nostro scritto si conclude, l’ultima parola è soltanto una tappa lungo il percorso. La pagina bianca è sempre una soglia. Per fortuna ripartiremo, avventurandoci nelle città del mondo, nelle foreste, nelle montagne, nei deserti, per fare nuove provviste di immagini e di sensorialità, per scoprire altri luoghi e altri volti, per trovare argomenti di scrittura, per rinnovare lo sguardo, senza mai dimenticare che la terra è fatta più per i piedi che per i pneumatici e che fintanto che abbiamo un corpo tanto vale servirsene. […] Quanti sono i sentieri, le strade, i villaggi, le città, le colline, i boschi, i mari, i deserti, tanti sono i percorsi per raggiungerli, sentirli, osservarli, per abbracciare la memoria nell’esultanza di essere in quel luogo. I sentieri, la terra, la sabbia, le rive del mare, perfino le pietre e il fango sono a misura del corpo e del brivido di esistere.
Non vi è ancora venuta voglia di calzare un paio di scarpe comode e uscire alla ricerca del vostro sentiero?