giovedì 25 ottobre 2012

Così è la vita



Da qualche tempo mi capita di pensare alla morte. Forse perché vedo i miei nonni sempre più acciaccati e fragili (sebbene meravigliosamente lucidi), forse perché le telefonate con mia mamma prevedono spesso un «Sono stata al funerale di…» alternato da un «Sai chi è morto?». La morte è parte della vita; indubbiamente. Ma se penso alle persone che più amo, quest’approccio filosofico va a farsi benedire.   

Le cose migliori che mi sono successe negli ultimi tre anni sono state a un funerale”, dice Concita De Gregorio nel suo ultimo libro di cui ho sentito parlare dappertutto. Ne ho sentito parlare per radio, in televisione, al Salone del libro. Ne ho sentito parlare così tanto da pensare d’averlo letto prima ancora di prenderlo tra le mani.
Non è un libro che ti cambia la vita; non ti cambia neppure l’idea della morte. Ogni tanto ti strappa un sorriso, ti fa appuntare un titolo di un libro o di un film. È un po’ come fare quattro chiacchiere con un’amica, scambiandosi qualche riflessione sulla fugacità della vita, sull’inesorabilità del tempo che scorre e la vecchiaia che spaventa. Niente di drammatico però; osservazioni leggere che accompagnano un tè e qualche pasticcino.
Mentre leggevo, ho pensato al piacere che provo passeggiando nei cimiteri. Una di quelle cose che evito di raccontare in giro: c’è sempre qualcuno che mi guarda come fossi un’invasata.
Da piccola mi infastidiva la visita rituale nei primi giorni di novembre. Tutta quella gente, quel vociare sconclusionato, quel miscuglio di fiori, quei sospiri dovuti davanti alle tombe. Nella mia testa, il cimitero era un luogo di pace, un posto in cui poter passeggiare, riflettere, trovare delle risposte; non un luogo da frequentare solo in determinate occasioni, un posto temuto e di struggimento. È stato un sollievo liberarsi dell’appuntamento del 2 novembre e restituire al cimitero il suo giusto valore. Che poi, a quanto pare, non sono la sola a pensarla così. 

Da bambina, quando andavamo in viaggio, passavamo sempre dai cimiteri del posto, fossero quello di Praga o del paesino di campagna in Provenza. «Dai cimiteri si capisce tutto di un popolo», diceva [il padre di Concita De Gregorio]. Si sedeva sulle panchine a guardare le donne che portavano acqua ai fiori e pulivano le tombe camminando lungo misteriose rotte già segnate. Quasi sempre, quando la lingua lo consentiva, faceva due parole con loro. Poi passeggiavamo nei viali a leggere i nomi sulle lapidi, le frasi, a ricostruire le genealogie delle famiglie. Neri cimiteri si passeggia e si legge insieme, difatti, e quasi sempre si ricorda qualcosa di dimenticato, si trova quel che non si pensava di cercare. I necrologi sono scritti sulla pietra anche quando non c’è scritto niente. Dipende dal coloro e dalla dimensione della lapide, dallo stile scelto per incidere il nome, dalle date. 

Aracoeli



Finito di leggere L’isola di Arturo, non volevo abbandonare la Morante e ho preso in prestito Aracoeli. Non è stata una scelta ragionata; Menzogna e sortilegio non era disponibile e Aracoeli aveva un ché di misterioso e musicale sin dall’incipit:

Mia madre era andalusa. Per caso, i suoi genitori portavano, di nascita, l'uno e l’altra, il medesimo cognome MUÑOZ: cosí che lei, secondo l'uso spagnolo, portava il doppio cognome Muñoz Muñoz. Di suo nome di battesimo, si chiamava Aracoeli.
Io somigliavo a lei nella carnagione e nei tratti, mentre la tinta degli occhi mi veniva da mio padre (italiano del Piemonte). Dal tempo che ero bello, mi torna all'orecchio una canzoncina speciale delle sere di plenilunio, della quale io non volevo mai saziarmi. E lei me la replicava allegrissima, sbalzandomi su verso la luna, come per fare sfoggio di me verso una mia gemellina in cielo:
Luna lunera
cascabelera
los ojos apule
la cara morena.

Ma non è stata una lettura semplice. A metà libro sono stata tentata dal chiudere e restituire il volume interrotto senza alcun rimpianto. Tutto quel vittimismo da parte di Manuelito, Vittorio Emanuele Maria como el rey, protagonista e io narrante del romanzo; tutta quella sofferenza, quel senso di vuoto e di abbandono mi si sono appiccicati sul volto, togliendomi l’aria. Ho avvertito spesso la necessità di alzarmi, di camminare, di sospendere la lettura per fare qualcosa, qualsiasi cosa che mi scrollasse di dosso quel torpore, quell’immagine di un ragazzo occhialuto, brutto, sporco, intento a crogiolarsi nei suoi dispiaceri e nella sua malasorte.
Però poi leggevo una frase, saltava fuori dalla pagina una parola che mi costringeva ad andar avanti. Non si può interrompere uno scrittore (per dirla alla Morante) capace di descrivere un saluto amoroso così:

Essendo lui represso da sempre nella natura, i suoi moti festanti somigliavano a quelli maldestri di certi cuccioli di cane. Ma quando mia madre e lui si allacciavano stretti nel benvenuto, il loro amore si scioglieva dall’impaccio in un frullo gioioso che faceva tremolare la luce.

Non si può interrompere un libro in cui, tra tanta amarezza, spunta fuori inaspettatamente un’immagine del genere:

Alla mia assenza, gli orologi del mondo saltavano, e le giornate si sfogliavano in disordine come trucioli di una pialla sconnessa.   

La poesia e la luminosità del L’isola di Arturo sono lontanissime, la voce della Morante è malinconica e cupa; non si intravede speranza, la morte sembra essere l’unico rimedio per chiudere vite che non hanno visto pace. È inquietante il rapporto madre–figlio che impregna l’opera: ossessivo e possessivo da parte del figlio; inizialmente morboso ma poi sempre più distante da parte della madre.
Una madre leggendaria che si trasforma in un incubo che perseguiterà per sempre Emanuele, condizionandone la vita. Una presenza ingombrante con cui il protagonista non riuscirà mai a fare i conti come, forse, accadde alla stessa Morante nei confronti di sua madre, perché parole così intense possono essere scritte solo da chi le ha già vissute.
Qui una bella recensione del libro.
 

mercoledì 3 ottobre 2012

Elsa Morante e L’isola di Arturo



I grandi libri vanno letti senza troppe interruzioni. Non si può iniziare un libro, tipo L’isola di Arturo, lasciarlo in borsa per un po’, spostarlo dalla borsa alla scrivania e dalla scrivania al comodino, senza avere il tempo di leggere più di quattro paginette al giorno. Così si finisce per perdere la storia, gli odori, si sciupa ciò che si sta leggendo e ci si convince che “No, questo libro non mi cattura”. Quando, due anni fa, dissi che avevo interrotto L’isola, un mio caro amico mi fece notare che non avevo l’età giusta per leggerlo. “È un libro per ragazzi, forse dovresti leggere qualche altra cosa di Elsa Morante”.
Ammesso che L’isola di Arturo possa essere considerato un libro per ragazzi (ho i miei dubbi), chi stabilisce che i libri per ragazzi non possano dire qualcosa anche agli adulti? Avevo solo commesso l’errore di ostinarmi a voler leggere in un periodo in cui non riuscivo a concentrarmi su nient’altro che non fossero le mie preoccupazioni di allora. 



Elsa Morante fa galoppare la fantasia con il suo universo di parole e immagini che ti conducono in un mondo incantato. Suoni e colori di una Procida che non esiste più, sempre che quella Procida sia mai esistita. Da quanto ho letto, Elsa era una donna di carattere, concreta, riservata, poco incline al romanticismo; eppure in questo romanzo ritrae impietosamente femmine dimesse, servili, nate per procreare e accudire i maschi.
Nunziatella, Nunz., è l’emblema di questa visione. Una donna religiosa, chiusa nelle sue credenze, terrorizzata dall’uomo che ha sposato solo per non contrariare la volontà materna. Un uomo di cui non si sa nulla, sempre altrove, un uomo che sembra voler bene solo ai suoi amici. Maschi, solo maschi. Un uomo che Nunziatella non ama, ma che ha sposato. E questo basta.
Eppure, nonostante il suo spirito di sottomissione, con i suoi selvaggi ricci, Nunziatella riesce a portare le donne nella “casa dei guaglioni”, sconfiggendo credenze popolari e superstizioni che aleggiano intorno al castello di Arturo
E Arturo? Arturo è il sogno dell’adolescenza che tutto trasforma, prima di scontrarsi con la realtà.
Procida è l’Isola, il luogo senza tempo in cui ogni viaggio è possibile, il luogo in cui la realtà è sogno, fantasticheria, idealizzazione di eventi e persone.


«È assurdo!», esclama uscendo dalla sua apparente timidezza, «Dividere le scrittrici dagli scrittori è come dividere l’umanità in biondi e bruni. Saba, che per me è il più importante poeta, dice che Marcel Proust è la più grande scrittrice del mondo».
Dall’intervista rilasciata a Sergio Saviane (pubblicata su L’espresso il 2 ottobre 1956) emergono molti aspetti interessanti della Morante, nota allora solo per essere moglie di Moravia e per il recente successo ottenuto con la pubblicazione di Menzogna e sortilegio.

Non si capisce bene dove lavori Elsa Morante: se in Via dell’Oca, 27, dove ha alcune stanze sopra l’appartamento del marito Alberto Moravia, o in Via Archimede, 121, dove ha uno studio più complicato e ancora più personale. Per ora, comunque, passa quasi tutta la sua vita in questi due appartamenti, tra dischi di Mozart, Verdi, Pergolesi, gatti siamesi e persiani. […] E, anche se a prima vista, la misteriosa abitatrice di quelle stanzette sembra non voglia interessarsi a fatti più esteriori della vita, al marito agli amici, ai libri, agli scrittori, tuttavia si sente vivere dentro di lei una grande popolazione di personaggi reali da cui difficilmente riesce a staccarsi e che nella vita hanno le loro radici.

Il tema viene ripreso in un’intervista rilasciata ad Enzo Siciliano nel 1972.
Uno scrittore, a suo giudizio, sta solo nei libri che ha scritto: il resto è di nessun interesse. «Sono più autobiografici i romanzi di qualsiasi altra cosa si possa raccontare di sé. Perché nei romanzi avviene come nei sogni: una magica trasposizione della nostra vita, forse ancora più significativa della vita stessa, perché arricchita dalla forza dell’immaginazione». 

Nel 1962, in un pezzo splendido di Paolo Monelli (della serie "I contemporanei al girarrosto"), Elsa spiega: “Scrivo sempre a mano, e procedo molto lentamente, e solo quando il periodo mi è venuto ben chiuso e calettato e le parole sono quelle che devono essere e non altre suggerite dalla fretta, solo allora passo ad altro periodo. E lo stesso faccio con i capitoli”.
È piccola, esile, schietta, una figurina di perpetua adolescente. Ed ha un sorriso dolcissimo e occhi viola, ugualmente dolceridenti. Non fidatevi. È d’acciaio, è una freccia scoccata dall’arco, è un missile che passa dove nessuno potrebbe varcare.

Io ho quest’edizione qui. Ma ve ne sono di più suggestive.



La prima edizione venne pubblicata da Einaudi nella collana «Supercoralli» nel 1957. La Morante scelse di mettere in copertina il dipinto di Guttuso, Ragazzo addormentato sulla barca. 

 

Sull’edizione economica degli «Oscar» Mondadori, pubblicata nel 1969, decise di riprodurre Fichidindia di Guttuso, che rimanda al paesaggio e a una delle piante più tipiche della vegetazione delle isole del Golfo di Napoli.






Nell'edizione del 1975, nella collana «Gli struzzi» di Einaudi, compare un’altra immagine evocativa del paesaggio di Procida, con un particolare di un acquarello di Ben Shan. 
Prima di fare questa scelta, la Morante prese in esame altre ipotesi di cui si conservano le prove di stampa: Testa di contadino catalano di Mirò; un particolare tratto da Seminatore al tramonto di Van Gogh; un quadro di Bill Morrow raffigurante una scogliera sul mare.