giovedì 25 ottobre 2012

Aracoeli



Finito di leggere L’isola di Arturo, non volevo abbandonare la Morante e ho preso in prestito Aracoeli. Non è stata una scelta ragionata; Menzogna e sortilegio non era disponibile e Aracoeli aveva un ché di misterioso e musicale sin dall’incipit:

Mia madre era andalusa. Per caso, i suoi genitori portavano, di nascita, l'uno e l’altra, il medesimo cognome MUÑOZ: cosí che lei, secondo l'uso spagnolo, portava il doppio cognome Muñoz Muñoz. Di suo nome di battesimo, si chiamava Aracoeli.
Io somigliavo a lei nella carnagione e nei tratti, mentre la tinta degli occhi mi veniva da mio padre (italiano del Piemonte). Dal tempo che ero bello, mi torna all'orecchio una canzoncina speciale delle sere di plenilunio, della quale io non volevo mai saziarmi. E lei me la replicava allegrissima, sbalzandomi su verso la luna, come per fare sfoggio di me verso una mia gemellina in cielo:
Luna lunera
cascabelera
los ojos apule
la cara morena.

Ma non è stata una lettura semplice. A metà libro sono stata tentata dal chiudere e restituire il volume interrotto senza alcun rimpianto. Tutto quel vittimismo da parte di Manuelito, Vittorio Emanuele Maria como el rey, protagonista e io narrante del romanzo; tutta quella sofferenza, quel senso di vuoto e di abbandono mi si sono appiccicati sul volto, togliendomi l’aria. Ho avvertito spesso la necessità di alzarmi, di camminare, di sospendere la lettura per fare qualcosa, qualsiasi cosa che mi scrollasse di dosso quel torpore, quell’immagine di un ragazzo occhialuto, brutto, sporco, intento a crogiolarsi nei suoi dispiaceri e nella sua malasorte.
Però poi leggevo una frase, saltava fuori dalla pagina una parola che mi costringeva ad andar avanti. Non si può interrompere uno scrittore (per dirla alla Morante) capace di descrivere un saluto amoroso così:

Essendo lui represso da sempre nella natura, i suoi moti festanti somigliavano a quelli maldestri di certi cuccioli di cane. Ma quando mia madre e lui si allacciavano stretti nel benvenuto, il loro amore si scioglieva dall’impaccio in un frullo gioioso che faceva tremolare la luce.

Non si può interrompere un libro in cui, tra tanta amarezza, spunta fuori inaspettatamente un’immagine del genere:

Alla mia assenza, gli orologi del mondo saltavano, e le giornate si sfogliavano in disordine come trucioli di una pialla sconnessa.   

La poesia e la luminosità del L’isola di Arturo sono lontanissime, la voce della Morante è malinconica e cupa; non si intravede speranza, la morte sembra essere l’unico rimedio per chiudere vite che non hanno visto pace. È inquietante il rapporto madre–figlio che impregna l’opera: ossessivo e possessivo da parte del figlio; inizialmente morboso ma poi sempre più distante da parte della madre.
Una madre leggendaria che si trasforma in un incubo che perseguiterà per sempre Emanuele, condizionandone la vita. Una presenza ingombrante con cui il protagonista non riuscirà mai a fare i conti come, forse, accadde alla stessa Morante nei confronti di sua madre, perché parole così intense possono essere scritte solo da chi le ha già vissute.
Qui una bella recensione del libro.
 

2 commenti:

  1. l'ho ascolatato su radiorai ("ad alta voce"). e mi e' piaciuto molto. hai riportato degli estratti splendidi. ciao

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    1. Grazie! Confesso che, a distanza di qualche giorno, ne sento ancora un po’ la fatica. Mi ero ripromessa di leggere subito “La storia” ma attendo un po’. Non vorrei farmi sopraffare tutt’insieme dalla Morante!

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