mercoledì 26 novembre 2014

Manuale di danza del sonnambulo, Mira Jacob

Sorprendente.
Il tomo è arrivato in ufficio; gli ho dato uno sguardo e mi son chiesta cosa avessi fatto di male alla Neri Pozza per meritare questo. Già l’idea della famiglia indiana alla ricerca del riscatto sociale negli States non mi faceva impazzire, leggerne per più di 500 pagine era l’espiazione per un peccato che non credevo di aver commesso. In fondo, non me l’aveva prescritto il medico, giusto? Potevo ignorare il libro e saltare l’appuntamento mensile con il Neri Pozza book club.
Invece no. Ho aperto di malavoglia il Manuale di danza del sonnambulo appena pochi giorni fa. E sono stata sequestrata dalla storia.
Ho trovato un po’ di tutto: l’amore, la famiglia, l’amicizia, il disagio di essere stranieri nella terra che per antonomasia accoglie tutti e dà a ciascuno (dicono) la possibilità di diventare ciò che si vuole. Ma poi ogni emigrato porta con sé un misto di nostalgia e disorientamento. E le culture si mescolano. Il sari e le Reebok con la chiusura di velcro, gli anelli di cipolla annegati nel ketchup e quintalate di chapati (pane indiano), raita (salsa a base di yogurt) e una lunga serie di chutney (condimenti di vaio tipo). Non so se la lettura del libro abbia influito, fatto sta che ho mangiato riso basmati con la curcuma per un’intera settimana.
Dialoghi brillanti e leggeri; la sensazione che Amina, la protagonista, potresti essere tu. Sì, lei è una trentenne di origine indiana nata nel New Mexico ma, come te, finge di non sentire sua madre quando la pungola sul matrimonio, sui figli che non ci sono, sull'abbigliamento poco femminile, sulle scelte professionali. Ha le tue stesse paure: può trovarsi come te, come tutti, a dover affrontare la malattia e la morte delle persone a cui vogliamo bene. Poi, però, la vita continua: bisogna alzare la testa e andare avanti. 
Anche Amina abbassa lo sguardo quando si sente a disagio, non riesce a fare la doccia con la porta aperta nella casa dell’uomo con cui esce perché in quel gesto c’è più intimità dell’andare a letto insieme. Fare la pipì mentre si parla con lui è un impegno per il futuro. Bisogna essere pronti.
Se non fosse stato per il book club della Neri Pozza, non credo avrei mai letto il Manuale di danza del sonnambulo. La famiglia indiana che si trasferisce in America? No, non mi avrebbe incuriosito. Non sarei stata attratta dalla copertina (scusate, almeno un difetto dovevo trovarlo. Le scelte grafiche della Neri Pozza sono sempre superlative, ma questa volta…). Per non parlare del solito dilemma del lettore: perché dovrei dedicare il mio irrisorio tempo all'anonima Mira Jacob quando ho decine di classici intonsi in libreria?
Certo però che avrei perso una bella storia.


Il Manuale di danza del sonnambulo mi ha aiutato ad affrontare una pessima settimana; una di quelle in cui si è così nervosi da non riuscire a prendere sonno la sera per la morsa alla bocca dello stomaco che non molla la presa. La lettura ha avuto un effetto calmante, avvolgente; capace di cancellare tutto il resto. Mica una roba da poco. 


Manuale di danza del sonnambulo, Mira Jacob
Traduzione di Ada Arduini,
Neri Pozza (Le tavole d’oro).

martedì 18 novembre 2014

Lieto fine, Edward St. Aubyn

In effetti lo si può definire un lieto fine. Peccato che il titolo originale fosse “At last” che non è esattamente un happy ending. Gli imperscrutabili misteri delle scelte editoriali. Ovviamente, se non hai letto I Melrose, risparmiati di entrare nella psiche di Patrick Melrose: non comprenderai mai perché ce l’abbia a morte con sua madre e perché questo funerale sia quasi una liberazione. Cioè, penserai che hai a che fare con:
- un over quaranta dall’infanzia traumatica che sta cerando di fare pace con sé stesso e decidere che direzione prendere (vero);
- la di lui ex moglie, ancora affezionata amica e sicuramente più madre che amante (vero);
- un gruppo di schizzoidi che partecipano al funerale di Eleanor Melrose ma potrebbe essere anche una festa di compleanno (vero). Sono tutti troppo presi dalle loro vite, dalle proprie ambizioni, dalle opportunità mancate, dal flusso dei propri pensieri per pensare al de cuius;
- il cadavere di una donna vecchissima che ha vissuto molteplici vite (aristocratica ricchissima e infelice, moglie depressa e infelice, madre anaffettiva e infelice, divorziata in missione umanitaria alla ricerca della felicità, fricchettona che si è liberata dei suoi averi per sovvenzionare una comunità new-age, morendo in solitudine e in pace. Felice?).


Ok, riformulo. Potresti anche leggere “At last” senza aver letto i precedenti quattro romanzi e potresti comunque pensare di aver capito tutto. Ma avrai perso una storia poderosa e non capirai quanto possa essere lieto quel finale.  


Edward St. Aubyn, Lieto fine
traduzione dall’inglese di Luca Briasco
Neri Pozza (Bloom) 


venerdì 14 novembre 2014

I Melrose, Edward St. Aubyn

Guardi la copertina e pensi a quei balli favolosi in quelle ville fantasmagoriche in cui si arriva con limousine e autista personale (pronto a raccattarti ubriaca persa), abito lungo, sguardo ammiccante. “Il cocktail dai Pratt? Una noia mortale! Mi hanno invitato anche a St. Moritz... [occhi al cielo]...onestamente non credo di poterli sopportare per un intero weekend!!” Risatina interrotta dall’arrivo di un ragazzo bruno in smoking con un flûte di champagne nella mano destra mentre poggia la sinistra sulla spalla nuda di un’altra deliziosa biondina dagli occhi maliziosi. “Patrick caro, che piacere rivederti!”.

Soppesi il libro, zittisci le voci che si stanno impossessando di te, e valuti se sia opportuno trascorrere almeno un paio di settimane con Patrick Melrose solo perché la tua parte irrazionale si è invaghita di una copertina e sta già favoleggiando; la parte razionale ricorda all’irrazionale che nella libreria ci sono almeno una ventina di classici, altrettanto voluminosi, in attesa di essere aperti. Le due scendono a compromesso: non acquisti il libro ma lo prendi in prestito in biblioteca, tanto per spiluccarlo un po’.
Ahimè, la copertina t’ha tratto in inganno: a fare da aperitivo ci sono feste, cene, cocktail, weekend sfarzosi, risatine ipocrite, baci e bacetti. Ma le portate principali sono i soprusi, gli aghi che si ingegnano per trovare una vena, un buon mix di ero e cocaina. Ogni tanto ci si chiude in cliniche costose e se ne esce disintossicati. Si smette di parlare con il televisore, ma la notte c’è tutto quel silenzio… Gli occhi sbarrati. I sonniferi inutili. Però c’è sempre l’alcool. E magari il cocktail di alcool e antidepressivi.
Il tomone della Neri Pozza racchiude quattro romanzi della saga dei Melrose. Il primo pugno lo prendi dritto in faccia, senza preavviso, a pagina 81, nel vedere il corpo di Patrick, cinque anni, schiacciato contro il letto, mentre la sua mente è appollaiata sul bastone della tenda nella camera del padre.
I calci all’altezza dello sterno ti arrivano nel secondo volume. Sei già più preparato ma la spasmodica ricerca di una vena per spararsi una bella dose ti fa comunque piegare in due. Tutto raccontato nei minimi dettagli. In modo così minuzioso che chi scrive non può che esserne miracolosamente sopravvissuto.

Edward St Aubyn fotografato da Brigitte Lacombe


A quel punto è chiaro che il librozzo lo leggerai fino alla fine perché sei una persona sensibile, con l’animo da crocerossina e un po’ Patrick Melrose vorresti aiutarlo. Entrare a casa sua, preparargli un caffè, dirgli che sì, poveretto, è stato il frutto di un abuso, persona non gradita sin da subito. Certo, nonostante tanto lusso, non ha avuto un’infanzia dorata: con quel padre che gli è toccato il minimo che potesse capitargli era diventare un tossico! Ma ora basta, siamo diventati adulti, il passato è passato e non si può vivere sostituendo una dipendenza all’altra. Eppure Patrick riesce ad annientare la tua buona volontà. È un tal disfattista da non porre limiti alla capacità di farsi del male. E tu resti lì, a lettura conclusa, chiedendoti che fine farà il povero Patrick. Così prendi in prestito anche “Lieto fine”, romanzo conclusivo della saga. Stavolta senza lasciarti ingannare dal titolo. 



I Melrose, Edward St Aubyn
Traduzione dall’inglese di Luca Briasco, Neri Pozza (Bloom)

lunedì 10 novembre 2014

La storia di un matrimonio, Andrew Sean Greer

“Due persone velate che camminano tenendosi per mano: forse il matrimonio è questo”.
Spero tanto non sia così, spero di conoscere mio marito più di quanto Pearlie conoscesse il suo Holland.
“L’oggetto del nostro amore esiste solo per frammenti, una decina se la storia è appena cominciata, un migliaio se lo abbiamo sposato, e con questi frammenti il nostro cuore fabbrica una persona intera”.
È solo finzione; nella vita reale una donna sa chi ha accanto. Sì? 
Se un bel giorno scoprissi che l’uomo che ho sposato amava un altro (sì, ho detto un altro), certamente non mi comporterei come Pearlie. Dici? Ne sei sicura?

La storia di un matrimonio è raccontata da Pearlie, ed è raccontata così bene che, per un bel pezzo della lettura, ho continuato a pensare all'autore come ad una donna. Ho trascorso qualche giorno nella San Francisco degli anni Cinquanta: la seconda guerra mondiale alle spalle ma ancora nella testa delle persone e la guerra di Corea lì, davanti agli occhi.  Sono gli anni del maccartismo e in tutto il romanzo si ha sentore di tende che si muovono e occhi che scrutano il vicino da cucine in penombra. 
Non è solo la storia di un matrimonio, sono i mille volti dell’amore, il desiderio di libertà, il sogno di un mondo senza pregiudizi. Ogni capitolo aggiunge un nuovo tassello alla storia ed ogni nuovo particolare mi ha colto di sorpresa. Ho letto che non si può mettere tanta carne al fuoco (guerre, diritti civili, caso Rosenberg) senza poi approfondirne i temi. A mio avviso, quei riferimenti servivano solo per contestualizzare meglio la storia e per entrare nei pensieri di Pearlie, vedere la caccia alle streghe e percepire la paura collettiva attraverso i suoi occhi.
Per tre quarti del libro ho rimpianto di averlo preso in prestito: non ho potuto annotare, sottolineare, mettere le mie freccette. Toccherà comprarne una copia per me.

Una delle tante citazioni che avrei voluto sottolineare:
Voi che cosa volete dalla vita? Sapete dirlo? Io allora non lo sapevo, neanche quando Buzz Drumer è venuto a chiedermelo. Ma qualcosa dentro di noi deve saperlo, e credo sia quello che ho visto quel giorno sulla faccia di Holland. Sembrava alla rovescia, con tutti i desideri e i sogni segreti della giovinezza in bella mostra sulla pelle, come un guanto rivoltato. Per un istante ho visto quello che voleva.

L’ho letto perché… questa signora qui dà spesso suggerimenti di lettura interessanti.




traduzione di Giuseppina Oneto, Adelphi.