martedì 17 marzo 2015

Ritratto di un matrimonio, Robin Black

Gli ultimi giorni prima della sua morte, mio marito Owen fece visita ad Alison ogni pomeriggio. Io lo guardavo superare faticosamente la piccola collina innevata tra le due proprietà, mentre si allontanava e mentre tornava da me, e mi domandavo quali pensieri gli attraversassero la mente. Mi domandavo anche se Alison lo osservasse da una finestra, e se l’espressione che vedeva sul suo viso, mentre si avvicinava, fosse molto diversa da quella che vedevo io quando tornava a casa.

Con un incipit del genere pensi subito che non ti schioderai dal divano finché il libro non sarà terminato. Ma poi non è così. Non perché la scrittura di Robin Black si perda nel corso della storia (anzi), ma per la malinconia che ti si appiccica addosso e ti impone qualche pausa. La narrativa contemporanea è satura di matrimoni, tradimenti, relazioni che si trascinano a stento, storie che naufragano. Ma non ci stancheremo mai di leggerne perché ogni storia è diversa dall’altra e ogni volta ci sembra di riconoscere nei personaggi qualcosa di noi, dei compromessi a cui si scende per amore, delle occasioni perse, delle verità non dette.
Owen e Gus stanno insieme da venti anni, non hanno figli. Quando decidono di provarci, scoprono che lui non può. Cosa succede all’interno di una coppia quando qualcosa si rompe e non ci si può trincerare dietro il classico “restiamo insieme per i ragazzi, lo facciamo solo per loro”? Qualcuno si lascia, altri cercano un valido motivo per rincollare i pezzi e pazienza se i segni della crepa non si possono cancellare.
Owen e Gus, scrittore lui, pittrice lei, approfittano di una piccola eredità caduta dal cielo per acquistare una fattoria e lasciare la frenesia e le tentazioni di Philadelphia. Isolandosi sperano di ritrovarsi e di ritrovare ispirazione per scrivere e dipingere. Ma il matrimonio è un affare complicato e gli equilibri non si possono pianificare a tavolino.
Robin Black sceglie il punto di vista della moglie, Gus; non conosceremo mai i pensieri del marito, non sapremo cosa l’addolora né cosa lo entusiasma, ci limiteremo a vederlo entrare e uscire dal granaio, luogo in cui trascorre le giornate a tentare di scrivere, aspetteremo che beva il suo bicchiere d’acqua pomeridiano. Se non lo fa, vuol dire che qualcosa non sta andando per il verso giusto, ma potremo solo ipotizzare cosa, nessuna certezza.

È un libro che non fa sconti, frasi scarne, descrizioni minuziose. Sappiamo sin dall'inizio che non ci sarà un lieto fine e sentiamo la storia ancora più vera. Perché nella vita il lieto fine non è mai assicurato. 

Robin Black, Ritratto di un matrimonio, trad. Chiara Brovelli
Neri Pozza, I narratori delle tavole.

martedì 10 marzo 2015

La mia casa è dove sono, Igiaba Scego

Conosco Igiaba Scego per i suoi interventi su Internazionale, mi piace leggerne le recensioni sui libri per ragazzi. Non che ne acquisti molti, ma nelle sue parole c’è sempre un ché di poetico da far venir voglia di sfogliarli. L’ho ascoltata un paio di volte per radio, poi mi è capitato di incontrarla e di perdermi tra i suoi discorsi. Passare dall’entusiasmo per La famiglia Karnowsky («E tu per caso hai letto I fratelli Ashkenazi? Neanch’io. Però mi dicono essere bellissimo. Devo leggerlo…») alla situazione in Somalia è un attimo; non so come, ci ritroviamo a parlare della comune fascinazione per la lingua portoghese. Ma lei si butta subito a falar o Portugues do Brasil, mentre io resto muta come un pesce. Incapace di proferire la più banale delle frasi. Chissà dove si è nascosto il mio povero portoghese!
La ascolto mentre parla dei suoi libri; dello scollamento tra tempi di scrittura e tempi di pubblicazione, dei non facili rapporti con le case editrici.

Guardo questa donna così intelligente, così carismatica, così sicura di sé e mi vien voglia di andare oltre gli articoli di Internazionale. Prendo La mia casa è dove sono solo perché nel corso della nostra conversazione l’ha menzionato più volte. Neanche ho capito che stiamo parlando della sua biografia.
Sheeko sheeko sheeko xariir…
Storia storia oh storia di seta…
Così cominciano tutte le fiabe somale. Tutte quelle che mia madre mi raccontava da piccola.

Ho sempre pensato di essere una donna senza preconcetti e senza pregiudizi. Ma non è così. Il mio cervello aveva già elaborato un film ed io neppure me ne ero accorta. Igiaba Scego, scrittrice, elegante, bella, di successo. Doveva esser nata in Italia, da una famiglia benestante; al massimo poteva esser stata adottata da una famiglia italiana. Una tipa così in gamba non può essere figlia di una donna che non sa scrivere. Impossibile. Che c’entra lei con quegli sfigati che sbarcano qui, con un nome impronunciabile e un baule di sogni destinati a naufragare tra uno spostamento e l’altro, aggrediti dai nostri sguardi diffidenti? Quelli là non ce la possono fare. Per carità, non siamo razzisti, che anzi i bimbi neri, con le loro treccine e i sorrisi smaglianti ci piacciono da morire. Però che ci vengono a fare qui, a contaminare la nostra terra, la nostra cultura, la nostra religione, la nostra lingua, senza portar nulla di buono?
La mia casa è dove sono è scritto quasi come un diario; è una sorta di memoir.  Non ci sono frasi ricercate, parole altisonanti, vittimismo; c’è il desidero di raccontare, di spiegare ma anche di capire; se fosse una conversazione, Igiaba direbbe che sta ragionando a voce alta. La famiglia di Igi era potente, negli anni Sessanta faceva parte della nuova intellighenzia somala; sua papà avrebbe dovuto guidare il Paese nella svolta democratica, invece si ritrova a scappare dalla dittatura di Siad Barre e dalla guerra incivile, senza soldi e senza futuro.
Eravamo i più invidiati, i più ammirati, forse anche i più odiati, poi siamo stati semplicemente compianti, qualcuno forse avrà detto tra sé e sé: «Ben gli sta a questi palloni gonfiati, che assaggino la miseria. Siete dei capitalisti, dei borghesi, non vi meritate altro». Chiunque aveva un’opinione su di noi. Anche noi del resto abbiamo avuto un’idea su di noi.
Arrivano in Italia spinti dalla sensazione che qua si possa ricominciare a sognare. Un sogno non si dovrebbe negare a nessuno.
Igiaba è nata in Italia, ha vissuto l’infanzia spostandosi da una pensioncina fatiscente all’altra, tra un insulto e un gesto d’amicizia, tifando Roma e studiando la storia della Capitale. Italiana al 100%.
Igiaba ha trascorso poco tempo in Somalia. Eppure le è bastato stare lì qualche mese per ritrovare la lingua dei suoi genitori, le storie raccontate dalla mamma, un altro pezzo di infanzia. Somala al 100%.
Ma allora dov’è la casa dei famigerati immigrati di seconda generazione?

Forse ha ragione lei: molti figli di migranti sono come tartarughe. La casa se la portano dietro.


Igiaba Scego, La mia casa è dove sono.
Rizzoli, 2010.