sabato 21 maggio 2016

XXIX Salone internazionale del Libro di Torino: ho messo in valigia…

Se sei allergica alla folla, al vociare, ai volantini che ti perseguitano pure in bagno, alle file interminabili per un caffè, al costo esagerato per una bottiglietta d’acqua, all’effetto IKEA in una piovosa domenica pomeriggio… il Salone del Libro di Torino non fa per te. Quindi, vi starete chiedendo, perché continui a tornarci ogni anno?
Perché, lagne a parte, porto sempre a casa qualcosa di bello.
 
Paco Ignazio Taibo II racconta il suo "A quattro mani", La nuova frontiera.
Momenti belli:
üLa cenetta in zona San Salvario, a due passi dalla Libreria Trebisonda, con gli amici romani del gruppo di lettura del Klamm. Mi confronto con Simona sullo stile di Jan Brokken, che a me è piaciuto tantissimo e a lei un po’ meno. Intanto Irene parla di editori che non pagano e di piccoli editori dal grande potenziale e Laura non la smette più di elencare progetti volti alla promozione della lettura. Il babbo di Fabio cena in silenzio, ma ci osserva attentamente. Quante volte avrà voluto zittirci tra una forchettata di pasta e un goccio di vino rosso.
ü) Incontrare gli scratch readers senza l’incubo di skype che cade, abbandonandoci nel bel mezzo di una discussione sull’orizzontalità del racconto rispetto alla verticalità del romanzo (concetto che mi è rimasto oscuro).  
ü) Camminare per le vie di Torino con un’amica che non vedevo da anni. Leccare un gelato e parlare fino a notte fonda.
üCorrere sul Lungo Po mentre Torino sonnecchia ancora.
ü) Visitare il Museo Egizio. Il fascino irresistibile delle mummie dopo gli schiamazzi delle scolaresche nel Bookstock Village.
üPaco Ignazio Taibo II alle 9.00 di mattina che trascina due enormi valigie nella stazione di Torino Porta Nuova. “Buongiorno! Che onore poterla ascoltare ieri pomeriggio. È stato meraviglioso”. Lui che si mette la mano sul cuore e ringrazia, dicendo di esser incantato da tanto calore. Io che salgo sul treno con gli occhi a cuoricino.
üL’entusiasmo di Giulia Zavagna mentre traduce le parole del boliviano Rodrigo Hasbùn. Uno che dichiara di aver scritto seguendo la logica del silenzio per lasciar più spazio all’immaginazione del lettore non puoi non comprarlo e leggerlo.
Fabio Geda presenta "I jeans di Bruce Springsteen" di Silvia Pareschi  
üL’incontro con Silvia Pareschi. Lei che mi presenta suo marito mentre io mi chiedo: “Ma sto davvero chiacchierando con la traduttrice di Franzen?”.
ü) Fabio Geda che, presentando I jeans di Bruce Springsteen di Silvia Pareschi, racconta di quando copiava intere pagine di Fenoglio, per la gioia di riscrivere brani altrui che ci hanno emozionato (io sorrido felice: non sono l’unica pazza).
ü) Scoprire piccole realtà editoriali come Edicola, una casa editrice abruzzese che pubblica tra l’Italia e il Cile; oppure Cliquot edizioni, che ripropone Riso nero di Sherwood Anderson in una nuova traduzione.
ü)  Trovare i tipi dell’Orma allo stand della Sur che pubblicizzano (e vendono) libri provenienti dall’America Latina. Quei geni di Exòrma se le inventano tutte pur di dimostrare la sinergia e la ricchezza (spirituale) che caratterizza gli editori indipendenti. Questa volta, la mente perversa di Silvia Bellucci, ufficio stampa di Exòrma, ha partorito Editori in scambio: un’iniziativa straordinaria che a me è piaciuta tantissimo.
üIl viaggio di ritorno. Iniziare a chiacchierare con la signora accanto che sta leggendo Il posto di Annie Ernaux. Si scoprono tante di quelle affinità da diventare amiche strada facendo.


L'appartamento della casa editrice NN al Salone di Torino

Ora Torino sembra lontanissima: i libri, la gente, le occasioni mancate, le osservazioni sul futuro dell’editoria e sull’Italia che non legge. Ma lascio ad intellettuali e sociologi le disquisizioni sui grandi temi. Dopo tanta confusione, mi ritiro nel silenzio delle mie stanze. 

Bottino torinese

martedì 10 maggio 2016

Anime baltiche, Jan Brokken

Entrò all’imbrunire nella capanna in cui stavamo preparando la cena. Magrissimo, pantaloncini beige, camicia di lino bianca, cappello di paglia a tesa larga. Si guardò intorno stupito; poggiò lo zainetto, si sistemò sul naso gli occhiali scheggiati, con le lenti perennemente sporche. Hallo everybody. I’m Teet. Come nulla fosse, tirò fuori dallo zainetto un avocado e una noce di cocco e si avvicinò al tavolo.
Noi eravamo arrivati a Chimoio, entroterra mozambicano a pochi chilometri dallo Zimbabwe, da una decina di giorni e non eravamo ancora abituati a quel viavai di volontari nel nostro progetto. Fui la prima a parlare: "Come diamine hai fatto a trovare un avocado oggi?”. La nostra amicizia nacque condividendo ogni sera un avocado, di cui io sono ghiottissima, e un sacchetto di anacardi. Mi facevano sorridere il suo inglese cantilenato e il portoghese ben scandito, quel modo di camminare ondeggiante, la serietà del suo umorismo (impiegavo sempre qualche minuto per capire se stesse scherzando o meno), la pacatezza di ogni gesto.  

Teet veniva dall’Estonia. Era il 2005, io avevo da poco scoperto che Svezia e Finlandia erano due realtà completamente diverse l’una dall’altra. L’esistenza dei paesi baltici non l’avevo ancora presa in considerazione. Teet avrebbe potuto esser originario della Curlandia, Lettonia, Lituania, Paperopoli: per me non avrebbe fatto alcuna differenza. Ma la mia prima osservazione fu tra le più sbagliate. “Praticamente Russia, giusto?”. Teet si rabbuiò appena; poi, con un sorriso compassionevole liquidò la faccenda con un Not really.
Se avessi letto Anime baltiche, non avrei commesso un errore così grossolano e avrei interpretato in modo diverso le sue osservazioni sibilline. Ma nel 2005 Jan Brokken stava ancora raccogliendo quegli stralci di vita che mi avrebbero fatto aprire gli occhi sui paesi baltici e svegliato il mio interesse.
Teet viaggiava da qualche anno; come me si era invaghito di un’organizzazione non governativa danese (che avremmo scoperto essere una mezza setta); aveva trascorso un anno in Norvegia, poi aveva iniziato a lavorare in un progetto di sviluppo rurale in Mozambico, un po’ a Lamego e un po’ a Chimoio, dove c’eravamo incontrati. “Com’è l’Estonia?”.
“Come posso raccontarti l’Estonia, little italian girl?”. Pensai che fosse difficile descrivere un paese così distante, che io immaginavo disabitato e freddo, sgranocchiando arachidi nel buio del cielo africano. Oggi ho capito cosa intendevi dire, Teet from Estonia. Come potevi spiegare, a chi credeva che l’Estonia fosse una provincia sovietica, la complessità di una terra che ha lottato per anni contro la russificazione forzata? Come potevi raccontarmi di quei boschi, dei campanili luterani a punta e dei tetti a cipolla delle chiese russo–ortodosse, della storia racchiusa nelle case di legno, delle rivolte contro il regime zarista, dei pogrom, delle deportazioni in Siberia?
Ignoro cosa facesse Teet in Estonia, da che città provenisse, quale fosse il suo trascorso. Noi cooperanti alle prime armi non parlavamo granché del nostro passato. Avevamo tutti una sorta di inquietudine, un’irrequietezza, eravamo alla ricerca di qualcosa. Teet era stato in diversi progetti, li confrontava, ci facevamo mille seghe mentali su quanto la nostra idea di cooperazione fosse corretta. Ci chiedevamo se non fosse una nuova forma d’ingerenza. Parlavamo del futuro.
Non trascorremmo tanti giorni insieme; il progetto di Teet era agli sgoccioli. Tornò nella sede norvegese della nostra organizzazione non governativa, indeciso sul prossimo futuro. “Cosa pensi di fare?”.
“Continuare a cercare la pace”.
Mi sembrò una risposta incomprensibile. Una persona che incarnava il concetto di tranquillità come Teet non poteva che esser già in pace con il mondo.
Tra il 2005 e il 2007 ci scrivemmo moltissimo. Aveva lasciato l’organizzazione che ci aveva fatti incontrare e si era trasferito a Londra. Aveva iniziato un corso di biodanza che lo entusiasmava. Che tipo originale! Ma trovava sfibrante tutta quella gente. Floods of people, specially in the evenings, so that you cannot even walk on the streets. What are they all doing?
Ogni email terminava con un Have you read any good books recently?
Mi invitò a prendere in considerazione un progetto di sviluppo in Botswana. Poi la corrispondenza divenne più sporadica. 
Nell’estate del 2010 ricevetti una email dal suo indirizzo. Scrivevano dall’eco villaggio di Tamera, Centro di ricerca per la Pace, per comunicare la scomparsa di Teet ai numerosi amici sparsi per il mondo.  Era annegato in circostanze poco chiare mentre faceva il bagno nel lago di Tamera, dove era arrivato da qualche settimana.
Il ricordo di Teet, rimasto nel cassetto per tanti anni, è emerso sin dalle prime pagine di Anime Baltiche. Ho cercato tra la mia posta: non ricordavo ci fossimo scambiati così tante email. Ho sorriso di nuovo per il suo umorismo sottile, ho rivisto i suoi occhi verdi, mi sono stupita della nostra capacità di analizzare, in una lingua non nostra, il senso di inadeguatezza verso il mondo. Come potevo aver dimenticato tutto questo? Incontrare un ragazzo così originale avrebbe dovuto svegliare la mia curiosità su quelle terre sconosciute. Come ho potuto continuare ad ignorarle?


Nel 1999 Jan Brokken, scrittore, giornalista e viaggiatore olandese, si imbarca su una nave mercantile per vedere la calda luce del Mar Baltico.
Il viaggio che per caso mi aveva portato in una piccola città portuale del golfo di Riga risvegliò la mia curiosità per quei paesi situati nell’angolo meno definito d’Europa. La calma del Baltico, l’orgoglio dei baltici, quella fierezza che Huig, con l’occhio accorto dell’uomo di mare, aveva saputo cogliere con tanta sicurezza al primo sguardo, mi hanno dato voglia di saperne di più. […] Essere orgogliosi del proprio paese significa credere in tutto ciò che lo rende speciale, diverso, unico. Significa avere fiducia nella propria lingua, nella propria cultura, nelle proprie capacità e nella propria originalità.
Sono tornato quattro, cinque sei volte in Estonia, Lettonia, Lituania. Sono stato in Curlandia e nella regione un tempo chiamata Prussia orientale, oggi provincia di Kaliningrad. […] Speravo di ritrovare qualcosa di quello che in passato era stata la forza e la vitalità del nostro piccolo pezzo di Europa. Perché viaggiare, insieme a leggere e ascoltare, è sempre la via più utile e più breve per arrivare a sé stessi.
Ho impiegato molti giorni per leggere Anime baltiche, un reportage che ti penetra nel cuore, fissando tutte le informazioni che un manuale di storia non saprà mai trasmetterti. La storia di un paese non è costituita dai grandi eventi ma dalla vita delle singole persone che abitano o hanno abitato quel paese, persone comuni e personaggi diventati famosi con il trascorrere degli anni. E Jan Brokken racconta quelle vite emozionandoti; a volte il nodo alla gola mi ha costretto a chiudere il libro, alzarmi, fare altro, prima di rimettere a fuoco le parole. Ho scoperto terre sconosciute, ho ripreso contatto con una parte di me che avevo messo a tacere. Sono riemerse storie, persone, episodi apparentemente scollegati tra loro. Perché viaggiare, insieme a leggere e ascoltare, è sempre la via più utile e più breve per arrivare a sé stessi. Mi sono chiesta che persona sarei oggi se non avessi deciso di rincorrere il contratto a tempo indeterminato e una vita normale. Ma non posso raccontarvi una storia di cui non conosco la trama.

Jacques Lipchitz - La gioia di vivere

traduzione di Claudia Di Palermo e Claudia Cozzi, Iperborea, 2014. 

Qui potete leggere il bel post di gabrilu.