giovedì 31 agosto 2017

Del dirsi addio, Marcello Fois

Se quest’estate non fossi stata in Alto Adige e se non avessi ascoltato Marcello Fois a Merano non avrei letto Del dirsi addio. Bolzano mi ha tradita: avevo fantasticato a lungo su questo amore impossibile (inizierò a studiare il tedesco, affronterò inverni lunghi e bui; tutto pur di trasferirmi a Bolzano), invece lei si è presentata distaccata e confusionaria. Certo, a pensarci ora, da Roma, Bolzano è tutto fuorché caotica; però non è la cittadina che avevo idealizzato.
Così, quando ho sentito Marcello Fois dire di aver ambientato il suo ultimo romanzo a Bolzanoperché volevo un posto che fosse già di per sé un personaggio”, ho pensato che forse tra me e Bolzano c’era stato un disguido. Era colpa mia: non ero stata in grado di comprendere la magia che aveva spinto Fois a recarsi più volte lì, a studiarne le vie, le persone, e a fargli dire che “se c’è un posto in cui mi trasferirei volentieri, quel luogo non può che essere Bolzano”. L’ho ascoltato prendere in giro bonariamente i bolzanini, apprezzare il loro atteggiamento compassato, elogiare il paesaggio, canzonare la perfezione di una città in cui non accade assolutamente nulla (“la vita dei giornalisti locali deve essere un inferno. Il TG regionale è di una noia pazzesca”).
Bolzano poteva apparire come un pezzo di mondo sorprendente: quella che chiamavano città non era nient’altro che una porzione di campagna addomesticata fino alla resa, e quella che chiamavano campagna una porzione di città virtuale. C’era tutto ma non sembrava esserci niente. […] Tutte le volte che decideva di affrontare a piedi qualunque percorso dovesse fare, si convinceva di trovarsi nel bel mezzo di un set cinematografico. E smetteva di sorprendersi per l’assenza di avvenimenti intorno a quella sorta di immenso outlet che ne costituiva le pendici.  
Questo è uno dei tanti volti della Bolzano di Sergio Striggio, commissario bolognese, dalla vita piuttosto complicata, nonostante la tranquillità di Bolzano. Striggio è un trentaquattrenne gay, ha già detto addio a sua madre, ha un pessimo rapporto con il padre, ex poliziotto, che non riesce a dimenticare le assurdità di quell’unico figlio che da piccolo era stato folgorato dall’incompletezza di Leon Battista Alberti e a tredici anni aveva iniziato a scrivere un romanzo, una sorta di diario dell’artista. Poi Sergio aveva smesso di fare assurdità ed era passato dal filosofeggiare intorno alla facciata di Santa Maria Novella al concorso in Polizia.
Insomma, mentre a Merano Fois parlava del suo finto noir, era evidente che l’espediente del ragazzino scomparso nel nulla, lungo la strada che da San Romedio va verso Bolzano, celasse la complessità dei rapporti familiari, ciò che abbiamo omesso di dire nel corso degli anni, la paura di svelare chi siamo. E il contrasto tra le imperfezioni dei personaggi e l’apparente perfezione di una Bolzano notturna, con il cielo carico di neve, così diversa dalla città afosa e turistica che avevo appena conosciuto io, mi ha istigato alla lettura.
Ho letto le critiche di qualche lettore disorientato dalle citazioni e dai continui flashback che distolgono dal noir, entrando di continuo nella vita dei personaggi.  A me la struttura del romanzo non è dispiaciuta, ma mi è sembrato ci fosse troppa roba. Omosessualità, bambini problematici, relazioni di coppia controverse, presunti abusi su adolescenti, la morte, imparare come ci si dice addio. Ci sono anche il noir e Bolzano, ma entrambi sono personaggi minori, comparse.
La scrittura di Marcello Fois è elegante, ricercata; l’autore è così attento alla lingua da far dire a Gea, la madre del bimbo scomparso, che il linguaggio è importante, le parole sono importanti. Da lettore ci si sofferma su quelle parole che tornano di frequente: stasi ed attrezzato sono due termini che piacciono molto a Fois (stabilizzare la stasi, ricordare la stasi, una stasi di vetro, frantumare la stasi, lo spazio della stasi; pareti attrezzate, attrezzati linguisticamente, serra attrezzata, persone attrezzate…) e che io ho trovato ripetitive e disturbanti.
Ho iniziato Del dirsi addio sul treno che da Bressanone mi riportava a casa perché desideravo restare ancora un po’ in Alto Adige, ma sono stata nuovamente tradita. Il romanzo è ambientato a Bolzano perché viene detto espressamente, però non c’è nulla che ti faccia realmente sentire la città. Niente che ti faccia venir voglia d’andarci se non ci sei mai stato o di tornarci se sei appena andato via. Ho avuto la sensazione che Fois avrebbe potuto ambientare questo romanzo in una qualsiasi altra città dalle invernate rigide e dalle strade deserte, e la percezione del lettore sarebbe rimasta inalterata.

Del dirsi addio ha ricevuto diversi giudizi positivi ed è stato consigliato anche da librai e persone di cui mi fido molto. Resta il fatto che non mi ha coinvolto.