martedì 28 novembre 2017

Viaggiatore suo malgrado, Minh Tran Huy



Nella calda estate del 2012, Line, francese di origine vietnamita, appena atterrata a New York per un breve soggiorno, cerca rifugio dai rumori della città girovagando nelle stanze deserte del MoMA. 
Line, semplificazione e storpiatura del vietnamita Ngoc Linh, luce di Giada (luce della mente), registra suoni per un’agenzia di produzione fonica, attività che le permette di spostarsi di continuo. Non che la sua vita sia particolarmente avventurosa, ma muoversi è diventato per lei naturale, così come rifugiarsi nei musei per concentrarsi su qualcosa di diverso dal frastuono del mondo. Ad affascinarla, in fondo, non sono il suono delle campane o il brusio delle conversazioni, quanto le diverse sfumature del silenzio. Il silenzio carico di una biblioteca non ha nulla a che vedere con il silenzio immobile di un appartamento deserto; il silenzio quasi doloroso di sua madre, mentre lavora alla redazione di un articolo scientifico, è diverso dal prolungato silenzio di suo padre che ha fatto del tacere uno stile di vita. È suo padre ad avergli trasmesso l’amore per l’arte e la pittura, ed è il suo silenzio ad accompagnarla virtualmente nel vagabondaggio nei musei. Un uomo taciturno, incline a manifestare i sentimenti con i gesti e non con le parole; affascinato dalla bellezza e dagli ingranaggi del mondo, ha iniziato a spostarsi sin da ragazzino per sfuggire alla fame, alla guerra, alla morte e poi, suo malgrado, ha continuato a muoversi.
“Quasi nostro malgrado, cominciavamo a stabilirci dove avevamo solo pensato di transitare. Cominciavamo a costruirci un’esistenza, e anche a prolungarla”.
In fuga dai disordini del Vietnam, viaggiare, per il padre di Line, è diventato naturale come magiare, dormire, respirare. Un bisogno impellente anche se non patologico, come quello di Albert Dadas, affetto da dromomania o “follia del fuggiasco”. Malattia curiosa, diffusa nella Francia del XIX secolo, che spinge le persone a partire di punto in bianco; lasciare tutto e mettersi in viaggio, abbandonando la propria memoria e la propria identità, fino a raggiungere, con qualsiasi mezzo possibile, la meta da cui si è stati conquistati. Trovare pace per qualche giorno e poi ripartire di nuovo, invaghiti da un'altra destinazione. Lo strano caso di Albert Dadas, viaggiatore suo malgrado, venne studiato dallo psichiatra Philippe Tissié e divenne oggetto del pamphlet dal poetico titolo I viaggiatori folli. Una disamina scientifica che rese celebre il primo episodio noto di dromomania, consegnandolo alla storia e ispirando (curiose) installazioni di arte contemporanea, come quella in cui si imbatte Line al MoMA di New York nel 2012.   
Viaggiatore suo malgrado, Albert Dadas, come la giovane atleta somala Samia Yusuf Omar che, in quell’estate, non potrà partecipare alle Olimpiadi di Londra perché annegata nel Mediterraneo, insieme ad altri disperati, senza nome e senza corpo, nel vano tentativo di raggiungere l’Occidente.
Samia indossava le scarpe da ginnastica per dimenticare la morte, il terrore, i dispersi. Un paio di scarpette e via, veloce, concentrarsi sul respiro, essere finalmente libera; intorno a lei c’era la guerra, ma la testa era altrove. Ultima nei 200 metri alle Olimpiadi di Pechino del 2008, si era sentita importante, nonostante i suoi diciassette anni e la semplicità di una T-shirt troppo più ampia di lei. Di Samia, nell’estate del 2012, resterà solo il ricordo del connazionale, campione olimpico, Abdi-Bile.
Le parole di Abdi-Bile entrano nell’appartamento newyorkese in cui Line sta leggendo la storia dei viaggiatori folli. Le fughe di Albert Dadas si sovrappongono alla corsa di Samia che si sovrappone agli spostamenti del padre di Line, al viaggio di sua cugina verso il Canada, all’aereo non preso da suo cugino e a tutte le storie dei viaggiatori loro malgrado che si perderanno nei ricordi.
Minh Tran Huy, nata e cresciuta in Francia da genitori vietnamiti, incrocia vicende personali con storie meno note, costruendo una narrazione di andate e ritorni, silenzio e movimento, della perenna ricerca di chi, sradicato dalle proprie origini per i motivi più disparati, vaga cercando il posto giusto nel mondo, un luogo in cui potersi sentire a casa.

Min Tranh Huy, Viaggiatore suo malgrado (Voyageur malgré lui), traduzione di Giusi Valent, ObarraO edizioni.


lunedì 13 novembre 2017

Il book festival, Pisa e le chiacchiere fuori dal festival

Non si prende un treno la sera di uno sciopero generale dei trasporti solo per andare all’ennesima fiera del libro. I libri si possono acquistare ovunque, le librerie organizzano incontri e tavole rotonde tutto l’anno, le piccole e medie case editrici si riuniranno a Roma, a Più libri più liberi, tra pochi giorni. Il Pisa book festival è il solito pretesto per riempire lo zaino, tornare in una bella cittadina e incontrare qualche amico. Perché, vanno bene i social, ma vuoi mettere star seduti intorno a un tavolo a chiacchiera con tre toscanacci e un ligure? Il vino novello e la pappa al pomodoro si intrecciano con racconti di viaggio, esperienze di lettura, minuscoli frammenti di vita e uno scambio schietto di idee che i social non potranno mai garantire.


Le Piagge
Poi c’è anche la fiera, la dimensione ridotta della manifestazione che permette di sfogliare i libri con calma, leggiucchiare un titolo già adocchiato in precedenza, scoprire le ultime uscite, fare quattro chiacchiere con un editore sconosciuto. È quanto accade con Riccardo Greco, traduttore, docente di letteratura brasiliana e portoghese nonché editore della Vittoria Iguazu Editora, piccola realtà editoriale con sede a Livorno. La cerco tra gli espositori perché ha pubblicato un testo di Eça de Queirós (autore in cui mi sono imbattuta leggendo Il venditore di passati di Agualusa), ma senza averne approfondito la storia editoriale. Scopro che Riccardo Greco, allievo di Tabucchi, ha studiato a Siena nel mio stesso periodo. Parliamo dei classici fuori catalogo, delle difficoltà dell’editoria, delle meravigliose stampe che circondano il suo banchetto, e delle stradine di Siena in cui aleggia lo spirito di una figura che non c’è più. Nostalgia di giorni sempre più lontani. Impossibile andare via a mani vuote.


Arriva la parte più bella della fiera: book in town, il festival fuori dal festival, i libri entrano nei bistrot, nei pub, nelle tappezzerie o tornano a casa loro (nelle librerie. Indipendenti). I lettori si mescolano con la città, ne esplorano spazi sconosciuti, vanno alla ricerca di vie che non avrebbero attraversato, chiacchierano con persone che avrebbero ignorato tra i banchetti più o meno affollati della fiera.
Forse è questa la formula da seguire (sempre che ce ne sia una): i libri dovrebbero uscire da nuvole e palazzi dei congressi e avventurarsi tra i vicoli di piccoli borghi, nei parchi delle città, nelle piazze, nei teatri, tra i sentieri dell’Appenino. Bisognerebbe andare oltre la conta dei biglietti venduti e dei libri imbustati nel corso degli eventi commerciali e trovare modi alternativi per far conoscere anche le pubblicazioni dei piccoli editori.

Così, in serata, si va nello spazio espositivo della storica tappezzeria Martinelli, tra le più antiche d’Italia. Sprofondati in divani che, ahimè!, difficilmente potranno entrare a casa nostra (non ora, almeno), ascoltiamo Paolo Ciampi. Paolo è un camminatore, giornalista, scrittore, blogger, buongustaio, gran lettore… insomma, tante cose, ma questa sera è prima di tutto un affabulatore. Dovrebbe presentare una delle sue ultime fatiche, L’aria ride (scritto con Elisabetta Mari, edito da Aska), racconto del viaggio a piedi tra i luoghi di Dino Campana e Sibilla Aleramo, ma è tutta una digressione. Si va dalla Via degli Dei al sentiero di Matilde di Canossa, dalle potenziali pedalate lungo il Po ai tortelli emiliani, si attraversano borghi deserti e frazioni popolate da appena 3 persone, tra pranzi luculliani e storie di fantasmi. 



Ancora una volta, viene voglia di acquistare una mappa, puntare il dito, mettere due libri nello zaino, indossare un paio di scarponi e partire.     


Il bottino del Pisa book festival