mercoledì 27 dicembre 2017

Il medico della nave / 8, Amy Fusselman

Marilena è arrivata in libreria, m’ha dato un bacio e un pacchetto. Mentre lo leggevo ho pensato che questo libro ti sarebbe piaciuto. Non c’era nulla da festeggiare, Natale era ancora lontano, ma gli amici lettori non cercano pretesti per regalare libri. Lo fanno e basta.
Ah che bello!, l’ho detto non pensando al libro in sé, ma al gesto d'amicizia e all’idea di leggere qualcosa pubblicato dalla giovane Black Coffee, casa editrice di cui conosco i fondatori ma di cui non avevo ancora letto nulla.
Poi c’è stata la fiera dell’editoria romana, la confusione, gli impegni già presi, i gruppi di lettura. Qualche sera fa, stanca del caos natalizio, pensando di avere tra le mani un racconto, inizio a leggere Il medico della nave. Marilena beve. Queste frasette spezzate, questa storia di cui non si capisce nulla. La tipa che non riesce a restar incinta è l’autrice? No che non può piacermi. Metto da parte il libro e dormo.
È arrivato il Natale, lo scambio dei doni, finalmente qualche giorno di ferie, il silenzio post pranzinfamiglia. Riprendo Il medico della nave. Marilena non beve; questi due piccoli testi non sono finzione, vedi? C’è scritto non-fiction, è una specie di diario, come dovresti tornar a scriverlo tu, così una volta per tutte metti su carta le tue paure. Ma io non penso di avere il coraggio di Amy Fusselman. Uno per scrivere certe cose deve esser forte, non deve preoccuparsi di ciò che penserà il resto del mondo (che, per inciso, potrebbe pensare oddio! è successo anche a me).
In questa sorta di memoir, Amy Fusselman si concentra su alcuni episodi importanti della sua vita: il rapporto con il padre, il difficile rapporto con la maternità, l’abuso sessuale subito da piccola. Ma il passato si mescola con il presente, con la musica degli AC/DC e quella dei Beastie Boys, con la terapia craniosacrale e con i racconti strampalati che solo i taxisti newyorchesi sanno regalare. Mentre Amy Fusselman riflette sulla relazione esistente tra spazio e tempo, arriva il Natale anche nella sua New York.
Gioia è anche una parola profondamente legata alla festività del Natale, agli angeli che scendono dal cielo per annunciare il miracolo della nascita di Cristo, la buona novella. Per via dell’incredibile importanza di questa notizia, gli angeli trasgrediscono, superano il confine che divide terra e cielo, il visibile dall’invisibile, l’umano dal divino. Ma questa gioia, mi pare, non appartiene tanto a noi esseri umani, quanto agli angeli. Colmi di gioia, infatti, son venuti a dirci che dopotutto per noi c'è speranza, che dopotutto possiamo ancora aspirare a unirci a loro.
È un libro scritto con ironia, si entra nella testa di Amy, nella sua casa, si gira insieme nelle strade di New York. È toccante senza scivolare nel patetico. Ed è stato un incontro felice: se non me l’avesse regalato Marilena, difficilmente ci sarei inciampata.


Amy Fusselman, Il medico della nave (The Pharmacist’s Mate)/ 8, traduzione di Leonardo Taiuti, Edizioni Black Coffee, 2017.

sabato 9 dicembre 2017

Dimmi come va a finire, Valeria Luiselli

Il Sogno Americano non esiste.
Esiste la necessità di arrivare negli Stati Uniti e il mito di rimanere, anche se resterai per sempre un alieno.
La legge statunitense sull’immigrazione definisce nonresident aliens chi proviene da paesi diversi e ha l’ambizione di ottenere una Green card. Se non intendi praticare la poligamia, se non sei un comunista, se non hai frequentato paesi a maggioranza islamica o fatto parte di una qualsiasi organizzazione che possa rappresentare una minaccia per gli USA, e se riesci a superare indenne la snervante procedura burocratica che apre le porte del paradiso, hai buone probabilità di passare dallo status di nonresident aliens a quello di resident aliens. Resterai comunque un alieno (residente), ma non verrai rimosso (removable aliens).
Se però sei un minore non accompagnato, originario del Triangolo Nord (Guatemala, Salvador, Honduras), che scappa dai maltrattamenti subiti nel proprio paese, da pericolose bande criminali, da storie di sfruttamento di vario tipo, la possibilità di essere accolto negli Stati Uniti si riduce drasticamente.
Se sei un minore originario del Messico o del Canda, per il solo fatto di provenire da un paese confinante, sei rimovibile a priori. Puoi anche fare a meno di partire, perché con buona probabilità verrai espulso, anzi, tecnicamente opterai per il ritorno volontario al paese dal quale stavi scappando (solo che la volontà non sarà la tua bensì quella del Presidente Bush, firmatario nel 2008 di un emendamento assurdo, contenuto nella legge che dovrebbe proteggere le vittime del traffico di esseri umani).
Prima di leggere il libro di Valeria Luiselli, tutte queste robe qui non le sapevo mica. Presa “dall’emergenza sbarchi” di casa nostra, nauseata dalle dichiarazioni accaparravoto di destra, sinistra, centro (qualsiasi cosa significhi oggi), istupidita dai criteri contenuti dal regolamento di Dublino e che disciplinano la richiesta d’asilo in Europa, non mi sono mai posta troppe domande su cosa accada altrove. Che ce ne fossero almeno 40 di domande, racchiuse in un formulario da sottoporre a ragazzini impauriti, che scappano dalla violenza sistematica di gruppi criminali, era per me impensabile.
I figli del Centro America fuggono dalle loro miserie saltando sulla Bestia (i treni merce che attraversano il Messico); se sopravvivono, si consegnano spontaneamente alla Migra (la polizia di frontiera tra Messico e USA) per poi passare in ghiacciaia, la hielera, il centro di detenzione in cui vengono internati per 72 ore (quando gli va bene) e in cui vengono sottoposti a raffiche d’aria gelida per uccidere i microbi annidati nei loro corpi. Negli ultimi tempi, gli itinerari seguiti dai migranti sono diventati più improvvisati ma non meno pericolosi.
Se pensavamo di detenere il primato per i bruschi metodi di accoglienza che riserviamo ai migranti, ci sbagliavamo. Va riconosciuto che gli Stati Uniti sbrigano la pratica velocemente. In 21 giorni puoi esser sbattuto fuori dal confine statunitense anche se hai 7 anni e nessuno da cui tornare.
Dal 2015 Valeria Luiselli lavora come interprete volontaria nel Tribunale Federale dell’Immigrazione di New York. Rivolge ai piccoli migranti le 40 domande previste dal formulario e poi traduce, o forse interpreta, le loro storie dallo spagnolo all’inglese. Ascolta decine di storie e, insieme agli altri volontari, fa da ponte tra i minori e il sistema giudiziario americano. Interpreta le risposte enigmatiche dei ragazzini, trasformandole in argomenti validi a dimostrare che il minore è stato vittima di violenza e che necessita di un avvocato. Solo a quel punto inizierà la battaglia legale per ottenere il diritto d’asilo o il SIJ, uno status speciale concesso agi immigrati minorenni.
Pur non sapendo quasi mai come va a finire, Valeria Luiselli racconta un pezzo di quella storia anche a noi, che restiamo attoniti, con il libro in mano e 40 domande nella testa.
Raccontare storie non risolve nulla, non ricompone le vite spezzate. Ma forse è un modo per comprendere ciò che è addirittura inimmaginabile. […]
E sapevo che se non avessi scritto questa particolare storia non avrebbe avuto senso tornare a scriverne qualunque altra.


Valeria Luiselli, Dimmi come va a finire (Tell me how it ends), trad. dall’inglese Monica Pareschi, La Nuova Frontiera, 2017.

venerdì 8 dicembre 2017

I viaggi senz'auto, le Marche e due terranauti perdigiorno

Ho incontrato Paolo Merlini e Maurizio Silvestri, due terranauti perdigiorno, dopo essermi innamorata di Piazza Unità d’Italia. Ero nella fase in cui infilavo in borsa qualsiasi cosa contenesse la parola Trieste. Tipo questo libro qui.

Zac. In borsa.
Leggere la parte dedicata a Trieste, dopo aver conosciuto la città, è stato come tornarci con la compagnia giusta. Due con cui poter parlare senza arrossire.
Io detesto guidare, lo dico sempre a voce bassa, con le guance che diventano bordeaux. «E come fai?», è la domanda più frequente.
Be’, sì, sono costretta a prendere l’auto per andare a lavoro e per alcune incombenze quotidiane ma, soprattutto per i miei viaggi, utilizzo il treno, i mezzi pubblici, le gambe, la bici… insomma, tutto il resto. «Davvero?» (sguardo sprezzante che oscilla tra il “povera sfigata” e “un’altra snob che vuole fare l’alternativa”). Fine della conversazione.
È che, alla guida, ho una tale ansia da non veder nulla di ciò che mi circonda, se non la strada. E che viaggio è quello in cui non vedi cosa c’è dal punto A al punto B? Tutto ciò per dire che nella collana i viaggi senz’auto dei tipi di Exòrma mi sono sentita subito a casa. Anzi, in viaggio. 
Dopo averli conosciuti (virtualmente) a Trieste, ho iniziato a curiosare nelle biografie del Mau (Maurizio Silvestri) e dell’esperto di vie traverse (Paolo Merlini) per capire come riescano ad organizzare questi viaggi in coppia dai quali emergono sempre due viaggi diversi, come se non incontrassero le stesse persone, non salissero sugli stessi autobus, non vedessero gli stessi scorci. Scopro che sono entrambi marchigiani.
Le Marche, regione molteplice e frammentata, con accenti nettamente diversi (un abitante del Pesarese e uno del Piceno che a sentirli parlare sembrano provenire da due nazioni diverse e non vivere all’interno dei 200 chilometri che ritagliano le Marche), il lungomare affollato d’estate e i turisti che attraversano velocemente le piazze di Ascoli Piceno, Macerata, Pesaro, Urbino, senza mai avventurarsi verso le località meno note, solo perché fuori mano. Le Marche, regione di Verdicchio, Varnelli, vincisgrassi e brodetto di pesce; regione poco chiacchierata se non in occasione dei tragici eventi sismici, avvenuti successivamente alla pubblicazione di questo libro. Le Marche, territorio a me totalmente sconosciuto fino a pochi giorni fa. E ora un po’ più vicino.
Chi, come la sottoscritta e il Merlini, associa le 18 del venerdì sera al sabato del villaggio, ossia al momento in cui prendere lo zaino e correre verso la stazione fantasticando su cosa ti riserverà il biglietto ferroviario che hai in tasca, sa che la narrativa di viaggio va assunta con cautela. Talvolta si rivela così noiosa da farti cambiare destinazione. La forza di questo libro, invece, è che il terranauta potresti essere tu.
Il percorritore di vie traverse potrei essere io, ferma nella stazione di Calcineto, che appunto sul mio taccuino rosso “Mi sento bene”. Io che vagabondo con il pensiero fino a quando non arriva una telefonata dall’ufficio che mi riporta alla triste realtà.
Ascoli Piceno. Foto di Mario Dondero

Non c’è niente di troppo costruito in questa sorta di reportage: non vedo i panorami con i miei occhi, non assaporo il brodetto della Maria, non sento il profumo del tartufo (che io non tollero), non ascolto i tanti racconti dei marchigiani incontrati per strada, ma sono lì con gli scrittori terranauti. Sono lì che faccio e disfo due giorni a Fossombrone, su un’ansa della riva sinistra del Metauro. Chissà se anche a me ricorderà Bologna. Ma forse dovrei fare in modo di passare per l’irrequieta Jesi, perché voglio respirare anch’io l’atmosfera dei suoi vicoli bui. I luoghi di cui ci si innamora perdutamente senza averne visto un bel niente, come accadde al Mau, sono i più pericolosi. E poi voglio mangiare lo stocco all’anconitana per comprendere lo spirito di Ancona; arrivare fino al porto e vedere quel mare che non è la fine della strada ma soprattutto l’inizio del viaggio. E voglio fermarmi in ogni caffè centrale di ogni borgo, farmi un bianchino (vabbè, senza esagerare) e ascoltare i racconti degli sfaccendati che sono uguali a tutte le latitudini. Voglio capire se, come ha detto la mia amica qualche giorno fa, i marchigiani siano chiusi e scostanti con il visitatore o se, come ha detto Guido Piovene nel suo Viaggio in Italia, il marchigiano tipico sia una sintesi di sobrietà, concretezza, equilibrio, con una giusta dose di ritrosia.
Arrivata al post-scriptum con la malinconia che caratterizza la fine di un bel viaggio, inizio a spulciare la bibliografia. Una paginetta ricca di stimoli. E il viaggio continua.
 
Maurizio Silvestri e Paolo Merlini. Foto di Mario Dondero