Tutto
è iniziato il giorno in cui Pina, una delle signore del gruppo di lettura della
biblioteca, mi chiama in disparte. “Faccio parte di un’associazione di
volontariato che svolge diverse attività; ti andrebbe di avviare un progetto di
lettura in un carcere della zona?”.
Nella
mia vita precedente ho lavorato anche in contesti complessi, ma non avevo mai
pensato ad un’esperienza di volontariato in carcere. Gestire un gruppo di
lettura, poi. Dove? In carcere?
Ho
pensato all’espressione di mio padre, semmai avessi deciso di parlargliene
(“Quella gente non merita niente”, poi si sarebbe alzato per andar a fare cose
più produttive di ciò che fa la figlia); ho pensato a quei crimini che mai e
poi mai potrei perdonare a chicchessia. Poi ho riflettuto su vicende accadute
in passato a persone a me molto care; a scelte sbagliate, ai tanti casi della
vita. Ho pensato che forse non ne avevo le competenze né le capacità, che è
facile coordinare un gruppo di lettori in biblioteca, gente che legge abitualmente,
che ha la libertà di andare in un luogo frequentato da altri lettori, acquistare un
libro, scaricarsi un ebook. Ma in carcere?
È
cominciata così quest’esperienza, con tante domande e un lavoro su me stessa,
sui miei dubbi, sulle mie paure.
Avevo
un’idea molto cinematografica degli istituti penitenziari: luoghi di
maltrattamenti fisici inauditi o, al contrario, luoghi di rinascita, dai quali
si può uscire con una nuova identità: un diploma, una laurea, un corso di
teatro, un’esperienza lavorativa in una cooperativa agricola, in un vigneto,
nell’artigianato. Avevo letto articoli su esperienze che dimostravano la funzione
rieducativa della pena; quelle sbarre non dovevano poi essere una cosa tanto
difficile da sopportare. Ero anche convinta del fatto che in tutte le strutture
penitenziarie italiane si adottassero gli stessi principi; ignoravo il ruolo
fondamentale del direttore nell’organizzazione del carcere e le peculiarità di
ciascuna sede. Ciò che vi racconterò, quindi, riguarda esclusivamente la Casa
Circondariale di Velletri; magari Regina Coeli
o Rebibbia avranno tutt’altra gestione.
Un
passo dopo l’altro, ho iniziato a scoprire un mondo intricato come i suoi
corridoi, in cui non riesco ancora a raccapezzarmi. È tutto un aprire e
chiudere le sbarre, ogni corridoio sembra uguale all’altro.
Prima
di quest’esperienza, scherzando, m’era capitato di dire che in fondo sarei
andata volentieri in carcere per qualche mese: avrei finalmente avuto un sacco
di tempo per leggere. Poi guardo la biblioteca: una stanzetta senza finestre, stipata
di donazioni provenienti da scantinati e soffitte polverose. Ho bisogno di
liberarmi della biblioteca ereditata dalla prozia, nessun libraio si sognerebbe
mai di acquistare libri invendibili, faccio la mia buona azione della giornata
e li regalo al carcere più vicino. Ci sono classici, narrativa contemporanea
(Fabio Volo, Moccia e Wilburn Smith in gran quantità), ma anche testi
sconosciuti in lingue oggettivamente poco diffuse sul territorio nazionale
(cosa ci facciano libri in olandese in una Casa Circondariale dei Castelli Romani
è un mistero su cui mi arrovello da quando li ho visti la prima volta). Ci sono tanti romanzi datati e sconosciuti: non li chiederà mai in prestito nessuno.
La
biblioteca è all’interno del carcere, però i detenuti non possono accedervi. “Ovvio”,
ha commentato qualcuno, “altrimenti non starebbero in carcere!” Sarà…
Il metodo
di istigazione alla lettura è molto efficace. Il detenuto dovrebbe decidere di
aver voglia di leggere un libro; fare la richiesta allo scrivano (ossia il
detenuto che si occupa di aiutare gli altri a preparare istanze, scrivere
lettere e, nel nostro caso, portare la richiesta del prestito di un libro alla
persona competente); quindi il detenuto con la funzione di bibliotecario
verifica che il titolo in questione sia in biblioteca, lo dà allo scrivano che
lo consegna al richiedente. Facile no?
Considerando
i presupposti, l’idea di organizzare un gruppo di lettura, inteso in maniera
classica (ciascun partecipante ha una copia del libro, lo legge autonomamente e
poi se ne discute durante l’incontro), si è affiancata ad un piano B. Poiché i
detenuti non possono andare in biblioteca, portiamo la biblioteca ai nostri
incontri. Suggerisco titoli, parlo di altri libri, chiedo se abbiano letto
qualcosa dall’ultimo incontro, condividiamo esperienze di lettura diverse.
Non
è detto che all’incontro successivo troverò le 30 persone dell’incontro
precedente; qualcuno viene solo per guadagnare punti che avvalorino la buona
condotta, qualcuno non ha mai preso in mano un libro in vita sua e non pensa lo
farà mai, ma ama le storie, gli piace sentirsele raccontare; qualcuno scrive
racconti e ti chiede se tu sia interessato a leggerli; moltissimi scrivono
poesie; tanti chiedono di poter leggere poesie d’amore. Qualcuno ha iniziato a leggere da quando
è in carcere (“dall’ultima volta che sei venuta ad oggi, ho letto 4 libri, uno
a settimana”), qualcuno non riesce più a leggere da quando è in carcere (“Prima
leggevo tantissimo. Ora mi è impossibile. La tv sempre accesa, c’è sempre
troppo rumore, non trovo il mio angolo, non riesco a concentrarmi”).
La
televisione. I detenuti non possono andare in biblioteca, non ci sono libri
nelle aree comuni, fino a qualche mese fa nessuno aveva pensato di mettere in
piedi un sistema di prestito interbibliotecario tra l’istituto penitenziario e
le biblioteche pubbliche locali (sebbene esista un protocollo d’intesa per la
promozione e la gestione dei servizi di biblioteca negli istituti penitenziari
italiani, sottoscritto dall’Associazione italiana biblioteche e dal Ministero
della Giustizia), però c’è un televisore in ogni cella e un televisore in tutte
le aree comuni. Il potere delle armi di distrazione di massa.
“Ora
tu pensi che andando in carcere a promuovere la lettura, quei delinquenti
diventeranno tutte brave persone, usciranno da lì e la prima cosa che faranno
sarà andar a comprare un libro?”. Me l’hanno ripetuto in parecchi.
Ora
io non penso niente, a cominciare dal fatto che la lettura ci renda persone migliori.
Ogni volta che entro in auto, nel mio sabato galeotto, inizia la battaglia con
l’inquietudine. Saranno le stesse persone della volta scorsa? Ma quel
ragazzetto schivo cosa avrà combinato per esser lì? E quel signore tanto
gentile che continua a ripetermi, quasi scusandosi, “Io non ero mai stato in
carcere prima” , come a volersi distinguere dagli altri, che crimine avrà
commesso? E io, che mi prendo la libertà di andare lì e farli evadere,
raccontando storie altrui, sto facendo la cosa giusta?
Io
non so se ci sia una cosa giusta, non so se un libro possa fare la differenza,
non so se questo progetto si trasformerà in un programma stabile, se riusciremo
mai a far diventare questo carcere un punto di prestito interbibliotecario; se
una volta uscite, queste persone torneranno a delinquere o meno.
Ho
una sola certezza: la pena, intesa come mera privazione della libertà, non
serve a nulla. Restare anni in attesa di un processo, senza alcun rapporto con
l’esterno, senza un lavoro, senza un sistema volto a mostrare delle
alternative, non ti farà diventare una persona migliore. Non
credo fosse questo il sistema di rieducazione del condannato che avevano in
mente i nostri padri costituenti quando scrissero l’art. 27 della
Costituzione.
Ho
impiegato molto tempo prima di decidermi a raccontare quest’esperienza e ho
avuto difficoltà nel trovare le parole giuste (sempre che ci sia riuscita)
perché quelle sbarre mi hanno destabilizzato, hanno rimesso in discussione ciò che
fino a pochi mesi fa credevo essere punti fermi. Insomma, questo post mi è
servito per rompere il ghiaccio e ringrazio il Maggio dei Libri e la blogger
Simona Scravaglieri che mi hanno fornito il pretesto giusto per iniziare a parlarne.
Non potevo tirarmi indietro di fronte al tema la Lettura come Libertà, sbaglio?
Ringrazio
doppiamente gli organizzatori dell’evento e le case editrici Rizzoli, La Giuntina
e Neri Pozza per aver accolto la mia richiesta e aver donato alcuni romanzi che
nei prossimi giorni entreranno a far parte della biblioteca della casa
circondariale. Romanzi che ho letto di recente e che credo potranno suscitare
interesse e stimolare un vivace dibattito con i detenuti. Spero di potervene
parlare presto.
Questo
post rientra nel progetto #blognotesmaggio, sapientemente coordinato da Simona
Scravaglieri (la donna a cui non sfugge neanche la più piccola della case
editrici esistenti in Italia), che è riuscita a coinvolgere una ciurma di
blogger e vlogger (gente strana che fa un sacco di video) che, neanche a dirlo,
vi proporranno libri in tutte le salse. Gente che parla di libri tutto l’anno, ma che a maggio dà il meglio di sé. Sbirciare per credere:
L'ideatrice di #BlogNotes (e di una marea di altre cose) Laura Ganzetti - Il tè tostato