lunedì 14 maggio 2018

L’Arminuta, Donatella Di Pietrantonio


Giravo intorno ai libri di Donatella Di Pietrantonio da parecchio tempo, ma l’occasione d’iniziare a leggerne uno è arrivata solo qualche giorno fa, grazie alla proposta del gruppo di lettura del baretto. Quelli del baretto sono gli amici divenuti tali libro dopo libro; un gruppo informale che ancora non ha ben deciso se sia meglio incontrarsi in una nota  libreria della Capitale (indipendente dai grossi gruppi editoriali) o in un baretto, che spesso ci accoglie con aperitivi abbondanti (elemento che incrementa l’indecisione). Talvolta è complicato incastrare i miei orari di lavoro con i luoghi d’incontro del gruppo, però mi piace ascoltare l’opinione di altri lettori su libri di recente pubblicazione, solitamente autori contemporanei di cui, forse, avrei continuato a rimandare la lettura.
Con l’ebook di Donatella Di Pietrantonio tra le mani ho finalmente iniziato a pronunciare il titolo corretto del libro: l’Arminuta e non l’Arminauta, come mi sono ostinata a ripetere fino alla settimana scorsa. Che poi, a ben pensarci, la parola “arminauta” ricorda per assonanza quella di astronauta, cosmonauta, persona che viaggia nello spazio, e racchiude un alone di mistero e fascino. Niente di troppo diverso da ciò che deve esser stata “la ritornata” per i ragazzi del paesino abruzzese in cui è ambientata la storia.
Donatella Di Pietrantonio racconta in forma romanzata la pratica, a quanto pare piuttosto diffusa nell’Abruzzo degli anni Sessanta, del “donare i figli”: le madri di famiglie numerose e indigenti davano in dono i propri figli a coppie sterili, benestanti, che avrebbero potuto garantire un futuro migliore a quei neonati in sovrannumero, procreati per caso. A volte le seconde madri erano parenti dei genitori biologici e neppure veniva cambiato il cognome del bambino che avrebbero allevato.
A tredici anni, l’Arminuta, ignara d’esser stata “adottata” da sua zia quando aveva appena sei mesi, viene restituita alla sua famiglia d’origine. Si ritrova circondata da fratelli che non conosce, da una madre che non sa come chiamare, da un dialetto che non capisce e di cui si vergogna, dall’odore di urina che impregna i materassi, dalla spontaneità di una sorella di undici anni che l’aiuterà a cavarsela nella nuova vita.
La Di Pietrantonio ha scritto un bel romanzo, in cui un italiano poetico si mescola ad espressioni dialettali che rievocano un’Italia remota. Un dialetto in cui il verbo donare esiste nella sola forma raccontata nel romanzo del “donare i bambini”, così come non esiste il verbo tornare che diventa un “ri-venire”.
Più che un romanzo sulla maternità mi è sembrato un romanzo sull’esser figli, sulla ricerca di quel luogo sicuro che dovrebbe essere l’appartenenza, sapere chi poter abbracciare quando ci si sente smarriti. L’Arminuta non sa dove rifugiarsi. Porta in sé due mondi diversi e due forme d’amore contrastanti: l’affetto della prima madre, racchiuso in una coscia di pollo e un uovo sbattuto con la marsala, e l’accudimento dell’altra madre, che si manifesta in un corso di nuoto, un cappotto nuovo, le lezioni di danza. Due modi d’amare inconciliabili che fanno rimpiangere le “mamme normali, quelle che avevano partorito i figli e li avevano tenuti con sé”. Due modi d’agire di cui comprenderemo le motivazioni solo alla fine del romanzo, quando anche l’Arminuta potrà rappacificarsi col suo destino di bambina donata e restituita.
Una lettura piacevole.

domenica 6 maggio 2018

La libertà di evadere. #BlogNotesMaggio


Tutto è iniziato il giorno in cui Pina, una delle signore del gruppo di lettura della biblioteca, mi chiama in disparte. “Faccio parte di un’associazione di volontariato che svolge diverse attività; ti andrebbe di avviare un progetto di lettura in un carcere della zona?”.
Nella mia vita precedente ho lavorato anche in contesti complessi, ma non avevo mai pensato ad un’esperienza di volontariato in carcere. Gestire un gruppo di lettura, poi. Dove? In carcere?
Ho pensato all’espressione di mio padre, semmai avessi deciso di parlargliene (“Quella gente non merita niente”, poi si sarebbe alzato per andar a fare cose più produttive di ciò che fa la figlia); ho pensato a quei crimini che mai e poi mai potrei perdonare a chicchessia. Poi ho riflettuto su vicende accadute in passato a persone a me molto care; a scelte sbagliate, ai tanti casi della vita. Ho pensato che forse non ne avevo le competenze né le capacità, che è facile coordinare un gruppo di lettori in biblioteca, gente che legge abitualmente, che ha la libertà di andare in un luogo frequentato da altri lettori, acquistare un libro, scaricarsi un ebook. Ma in carcere?
È cominciata così quest’esperienza, con tante domande e un lavoro su me stessa, sui miei dubbi, sulle mie paure.
Avevo un’idea molto cinematografica degli istituti penitenziari: luoghi di maltrattamenti fisici inauditi o, al contrario, luoghi di rinascita, dai quali si può uscire con una nuova identità: un diploma, una laurea, un corso di teatro, un’esperienza lavorativa in una cooperativa agricola, in un vigneto, nell’artigianato. Avevo letto articoli su esperienze che dimostravano la funzione rieducativa della pena; quelle sbarre non dovevano poi essere una cosa tanto difficile da sopportare. Ero anche convinta del fatto che in tutte le strutture penitenziarie italiane si adottassero gli stessi principi; ignoravo il ruolo fondamentale del direttore nell’organizzazione del carcere e le peculiarità di ciascuna sede. Ciò che vi racconterò, quindi, riguarda esclusivamente la Casa Circondariale di Velletri; magari Regina Coeli  o Rebibbia avranno tutt’altra gestione. 
Un passo dopo l’altro, ho iniziato a scoprire un mondo intricato come i suoi corridoi, in cui non riesco ancora a raccapezzarmi. È tutto un aprire e chiudere le sbarre, ogni corridoio sembra uguale all’altro.
Prima di quest’esperienza, scherzando, m’era capitato di dire che in fondo sarei andata volentieri in carcere per qualche mese: avrei finalmente avuto un sacco di tempo per leggere. Poi guardo la biblioteca: una stanzetta senza finestre, stipata di donazioni provenienti da scantinati e soffitte polverose. Ho bisogno di liberarmi della biblioteca ereditata dalla prozia, nessun libraio si sognerebbe mai di acquistare libri invendibili, faccio la mia buona azione della giornata e li regalo al carcere più vicino. Ci sono classici, narrativa contemporanea (Fabio Volo, Moccia e Wilburn Smith in gran quantità), ma anche testi sconosciuti in lingue oggettivamente poco diffuse sul territorio nazionale (cosa ci facciano libri in olandese in una Casa Circondariale dei Castelli Romani è un mistero su cui mi arrovello da quando li ho visti la prima volta). Ci sono tanti romanzi datati e sconosciuti: non li chiederà mai in prestito nessuno.
La biblioteca è all’interno del carcere, però i detenuti non possono accedervi. “Ovvio”, ha commentato qualcuno, “altrimenti non starebbero in carcere!” Sarà… 
Il metodo di istigazione alla lettura è molto efficace. Il detenuto dovrebbe decidere di aver voglia di leggere un libro; fare la richiesta allo scrivano (ossia il detenuto che si occupa di aiutare gli altri a preparare istanze, scrivere lettere e, nel nostro caso, portare la richiesta del prestito di un libro alla persona competente); quindi il detenuto con la funzione di bibliotecario verifica che il titolo in questione sia in biblioteca, lo dà allo scrivano che lo consegna al richiedente. Facile no?
Considerando i presupposti, l’idea di organizzare un gruppo di lettura, inteso in maniera classica (ciascun partecipante ha una copia del libro, lo legge autonomamente e poi se ne discute durante l’incontro), si è affiancata ad un piano B. Poiché i detenuti non possono andare in biblioteca, portiamo la biblioteca ai nostri incontri. Suggerisco titoli, parlo di altri libri, chiedo se abbiano letto qualcosa dall’ultimo incontro, condividiamo esperienze di lettura diverse.
Non è detto che all’incontro successivo troverò le 30 persone dell’incontro precedente; qualcuno viene solo per guadagnare punti che avvalorino la buona condotta, qualcuno non ha mai preso in mano un libro in vita sua e non pensa lo farà mai, ma ama le storie, gli piace sentirsele raccontare; qualcuno scrive racconti e ti chiede se tu sia interessato a leggerli; moltissimi scrivono poesie; tanti chiedono di poter leggere poesie d’amore. Qualcuno ha iniziato a leggere da quando è in carcere (“dall’ultima volta che sei venuta ad oggi, ho letto 4 libri, uno a settimana”), qualcuno non riesce più a leggere da quando è in carcere (“Prima leggevo tantissimo. Ora mi è impossibile. La tv sempre accesa, c’è sempre troppo rumore, non trovo il mio angolo, non riesco a concentrarmi”).
La televisione. I detenuti non possono andare in biblioteca, non ci sono libri nelle aree comuni, fino a qualche mese fa nessuno aveva pensato di mettere in piedi un sistema di prestito interbibliotecario tra l’istituto penitenziario e le biblioteche pubbliche locali (sebbene esista un protocollo d’intesa per la promozione e la gestione dei servizi di biblioteca negli istituti penitenziari italiani, sottoscritto dall’Associazione italiana biblioteche e dal Ministero della Giustizia), però c’è un televisore in ogni cella e un televisore in tutte le aree comuni. Il potere delle armi di distrazione di massa.
“Ora tu pensi che andando in carcere a promuovere la lettura, quei delinquenti diventeranno tutte brave persone, usciranno da lì e la prima cosa che faranno sarà andar a comprare un libro?”. Me l’hanno ripetuto in parecchi.
Ora io non penso niente, a cominciare dal fatto che la lettura ci renda persone migliori. Ogni volta che entro in auto, nel mio sabato galeotto, inizia la battaglia con l’inquietudine. Saranno le stesse persone della volta scorsa? Ma quel ragazzetto schivo cosa avrà combinato per esser lì? E quel signore tanto gentile che continua a ripetermi, quasi scusandosi, “Io non ero mai stato in carcere prima” , come a volersi distinguere dagli altri, che crimine avrà commesso? E io, che mi prendo la libertà di andare lì e farli evadere, raccontando storie altrui, sto facendo la cosa giusta?
Io non so se ci sia una cosa giusta, non so se un libro possa fare la differenza, non so se questo progetto si trasformerà in un programma stabile, se riusciremo mai a far diventare questo carcere un punto di prestito interbibliotecario; se una volta uscite, queste persone torneranno a delinquere o meno.
Ho una sola certezza: la pena, intesa come mera privazione della libertà, non serve a nulla. Restare anni in attesa di un processo, senza alcun rapporto con l’esterno, senza un lavoro, senza un sistema volto a mostrare delle alternative, non ti farà diventare una persona migliore. Non credo fosse questo il sistema di rieducazione del condannato che avevano in mente i nostri padri costituenti quando scrissero l’art. 27 della Costituzione.   
Ho impiegato molto tempo prima di decidermi a raccontare quest’esperienza e ho avuto difficoltà nel trovare le parole giuste (sempre che ci sia riuscita) perché quelle sbarre mi hanno destabilizzato, hanno rimesso in discussione ciò che fino a pochi mesi fa credevo essere punti fermi. Insomma, questo post mi è servito per rompere il ghiaccio e ringrazio il Maggio dei Libri e la blogger Simona Scravaglieri che mi hanno fornito il pretesto giusto per iniziare a parlarne. Non potevo tirarmi indietro di fronte al tema la Lettura come Libertà, sbaglio?
Ringrazio doppiamente gli organizzatori dell’evento e le case editrici Rizzoli, La Giuntina e Neri Pozza per aver accolto la mia richiesta e aver donato alcuni romanzi che nei prossimi giorni entreranno a far parte della biblioteca della casa circondariale. Romanzi che ho letto di recente e che credo potranno suscitare interesse e stimolare un vivace dibattito con i detenuti. Spero di potervene parlare presto.


Questo post rientra nel progetto #blognotesmaggio, sapientemente coordinato da Simona Scravaglieri (la donna a cui non sfugge neanche la più piccola della case editrici esistenti in Italia), che è riuscita a coinvolgere una ciurma di blogger e vlogger (gente strana che fa un sacco di video) che, neanche a dirlo, vi proporranno libri in tutte le salse. Gente che parla di libri tutto l’anno, ma che a maggio dà il meglio di sé. Sbirciare per credere:
Il grande capo, Simona Scravaglieri – LettureSconclusionate
Direttamente dalla Spagna, Nereia - Librangoloacuto
Erica – La leggivendola 
Francesca - Gli amabili libri 
La vlogger Selvaggia
La superlettrice Paola Sabatini special guest su LettureSconclusionate
Giada di Dada who? 
L'ideatrice di #BlogNotes (e di una marea di altre cose) Laura Ganzetti - Il tè tostato

venerdì 4 maggio 2018

L'altra Praga


Andai a Praga nell’autunno del lontano 2005. Arrivai in autobus dalla Danimarca; una sorta di viaggio di lavoro, anche se il lavoro era una forma di volontariato internazionale. Faceva un freddo della miseria, alloggiammo tre/quattro giorni nelle campagne praghesi in mezzo al nulla e una mattina lasciammo la campagna per la città di K. Ricordo l’emozione nel camminare sul Karlův Most immerso nella nebbia, un violinista che suonava per abitudine o per piacere, certamente non per denaro, visto che il ponte era semideserto; ricordo i minuti trascorsi con il naso all’insù nella piazza della Città Vecchia (Staroměstské nàměsti) aspettando che scoccassero le 00 di non so più che ora per veder sbucare gli apostoli dalle finestrelle dell’orologio astronomico. Poi ricordo il terrore di smarrire i ragazzini che mi erano stati affidati. Quindi, di Praga non mi rimase più nulla, se non il desiderio di tornarci.

Ho atteso parecchi anni prima di organizzare questo viaggetto scegliendo una data infelice: un bel ponte del Primo Maggio, in cui i datori di lavoro non hanno nulla da eccepire di fronte a un paio di giorni di ferie. Peccato che mezza Europa approfitti degli stessi due giorni per lasciare il caos della quotidianità e per immergersi nel bagno di turisti che invade le più belle città a portata di voli low cost.
Lo shock di ritrovarmi in un luogo così turistico è stato forte. Me l’aspettavo cambiata; sapevo che era diventata una meta molto ambita, ma non credevo di trovare una marea di gente in uno spazio relativamente piccolo. Quindi, non starò qui a parlarvi della Praga magica di cui si legge in giro, sebbene anche questa volta abbia trascorso più tempo con il naso all’insù che con la mente rivolta all’ipotetico borseggiatore di turno.
Di questo viaggio non dimenticherò:
- il quartiere ebraico di Josefov. Niente che somigli alle foto in bianco e nero presenti nella sinagoga Maisel o in altri musei della città, ma resta una zona particolare, con interessanti edifici Art Nouveau. Le sinagoghe sono tutte visitabili ad eccezione della Vysoka, recentemente riconsacrata al culto. La più nota resta la Staronová synagoga (Vecchia-Nuova, chiamata “Nuova” perché all’epoca della sua costruzione, nel 1270, ce n’era un’altra; cambiò il nome in Vecchia-Nuova quando venne sostituita da una nuova sinagoga nel XVI secolo). È la sinagoga più antica d’Europa, ma mi ha emozionato meno della sinagoga Pinkas, trasformata dopo la Seconda guerra mondiale in monumento ebraico alle vittime del nazismo. 

Le pareti sono ricoperte da nomi, date di nascita e di morte delle quasi 80.000 vittime delle persecuzioni naziste. Durante la guerra dei Sei giorni, il Governo comunista fece rimbiancare le pareti, riportate allo stato originario solo alla fine del Novecento.
Ancora con il magone di fronte a tutti quei nomi, salgo al piano superiore dove è stato allestito un piccolo Museo dedicato ai disegni fatti dai bambini nel campo di Terezín. Disegni a colori, in bianco e nero, alcuni sofisticati, altri molto elementari; buona parte delle immagini rappresenta la vita all’interno del campo; qua è là, la raffigurazione dei carcerieri con volti semisorridenti. Strazianti. Dopo il 1944 di quei giovani artisti è rimasto ben poco. 

Altrettanto commovente l’esposizione situata al primo piano della Sinagoga Spagnola (stile moresco, stucchi dorati, decine di stelle di David orientaleggianti); qui viene illustrata la storia della comunità ebraica boema e morava dal XVIII secolo al dopoguerra. Le testimonianze delle restrizioni operate dai nazisti, le liste degli oggetti requisiti, le foto dell’epoca ricostruiscono con chiarezza pagine terribili della storia del Novecento.

Se si decide di dedicare una mezza giornata alla visita di tutte le sinagoghe si avrà un buon quadro della cultura, delle tradizioni e delle vicissitudini storiche che hanno caratterizzato la vita del ghetto di Praga dalla sua origine agli anni più recenti. Imperdibile la visita all’antico cimitero ebraico

Lapidi disposte in modo disordinato, iscrizioni sulle tombe ormai cancellate dal trascorrere degli anni; pietre inclinate le une sulle altre eppure miracolosamente in equilibrio; qualche sassolino lasciato sulle tombe a mo’ di preghiera dai tanti visitatori. Molti turisti, ma l’atmosfera del luogo è tale da far tacere anche chi aveva sghignazzato fino a due secondi prima di entrare.
- Il museo di Franz Kafka. Foto, lettere, corrispondenza commerciale, passaporti, visti, certificati medici, schizzi, un filmato che proietta immagini in bianco e nero di una Praga distorta, sfocata, in continuo movimento. 
Il sottofondo sonoro è martellante, cupo, malinconico. Non se ne esce rappacificati con il mondo e non so neppure fino a che punto Kafka avrebbe approvato; comunque, io ho apprezzato molto questa full immersion nell’universo kafkiano.
Un ulteriore stimolo per leggere opere mai sfogliate e per rileggere quei romanzi di Kafka che anni fa mi avevano lasciato perplessa.
In generale i turisti dedicano poca attenzione a questo museo. Preferiscono fermarsi sulla piazzetta antistante l’ingresso per fotografare la curiosa creazione di David Černý: le statue di due uomini che urinano dentro una vaschetta avente la forma della Repubblica Ceca. Mi sfugge totalmente il senso dell’opera; capisco ancor meno il perché di tante foto. Ma è colpa mia: ho un problema con l’arte contemporanea. Negli spazi del Rudolfinum (sede della Filarmonica ceca), per dire, c’era l’installazione di tal Mat Collishaw. L’ho visitata per caso (ero entrata nel Rudolfinum per acquistare il biglietto per un concerto) e ancora mi chiedo cosa avessero da commentare quei ragazzi che osservavano la rappresentazione di due toast smangiucchiati ai lati, sovrapposti, contenenti entrambi prosciutto cotto. Un’altra forma di natura morta.  


- La rapida visita al Klementinum e alla sua biblioteca in stile barocco. È possibile visitare il complesso museale solo attraverso una visita guidata che dovrebbe durare 45 minuti. In realtà, la visita è durata pochissimo; la biblioteca s’intravede affacciandosi dalla porta aperta e alternandosi con le altre 15/20 persone del gruppo. Poi ci si inerpica su una scaletta (e credo sia venuto a tutti qualche dubbio sulla messa in sicurezza del luogo) per visitare la torre astronomica e, arrivati in cima, restare senza fiato davanti all’incantevole panorama sulla città.
- Il mio primo assenzio, sorseggiato in una rilassante Absintherie, con tanto di taccuino alla mano. La triste consapevolezza che non basta un distillato ad alta gradazione alcolica per trasformarsi in un Hemingway.
- I ragazzi davanti al muro di John Lennon, diventato semplicemente un muro coloratissimo, mentre intonano Imagine

Intanto i commercianti approfittano della popolarità del luogo per aprire un ristorante a tema.

- Uscire da Yellow submarine e imbattersi in un coro che canta a cappella Oh Happy day! il Primo Maggio sulle rive della Moldava. Applauditissimi. Mah…
- La sproporzione tra il costo dei biglietti per visitare le attrazioni della città e il costo medio per una buona cena. Circa 13 euro per l’audioguida che illustra la storia del Castello (€ 13 che si aggiungono ai 10 euro del biglietto) contro gli scarsi 8 euro, mancia inclusa, per un pasto abbondante.
Capitolo mance: stando a quanto sostiene la guida Routard, la mancia viene lasciata solo per compensare i bassi salari dei camerieri (come da noi, per intenderci). Di fatto, in alcuni locali, ci siam visti presentare un conto con un timbro apposto in rosso in cui si specificava che normalmente si aggiunge il 10% al totale del conto, e il cameriere di turno diventava improvvisamente loquace e gentile nello spiegarci che bisognava pagare il servizio (il cui costo non viene riportato nel menù).
Dei praghesi non ricorderò la cordialità: ruvidi, di poche parole e ancor meno sorrisi.

Poi ci son state le passeggiate senza meta tra le vie del quartiere Malá Strana, la riposante birretta sull’isola di Kampa dopo aver camminato uno sproposito, le ultime pagine di Una solitudine troppo rumorosa immersa nel verde della collina di Petřín.

Nonostante la moltitudine molto rumorosa dei giorni praghesi e nonostante il cielo azzurissimo, questo viaggio mi ha lasciato una malinconia che non riesco a spiccicarmi di dosso. Colpa di Kafka e Hrabal? Di quelle piazzette in cui capiti per caso e che ancora conservano la magia della Praga d’oro?
Chissà…


Altre due care amiche hanno raccontato la loro Praga letteraria e fisica qui e qui.
Qui, invece, si può ripercorrere la Praga di Franz Kafka.
I nostalgici delle librerie di seconda mano in stile Shakespeare and Company parigina ne troveranno una molto accogliente nel quartiere di Malá Strana, a due passi dal Franz Kafka Museum.