lunedì 15 dicembre 2008

Compra, compra, compra...

Lungo periodo d'assenza. Le giornate corrono troppo velocemente. Per quanto m'alleni, non mi riesce ancora di starci dietro. Lavoro, casa e poi di nuovo lavoro. E una marea d'informazioni che mi bombardano quotidianamente. Le cose accadono in fretta ed io, che di natura sono parecchio lenta, non ho il tempo sufficiente per riflettere, sviscerare, metabolizzare la realtà. Da qualche settimana, però, c'è un ritornello che echeggia nella mia testa. Più pressante d'altre cantilene. Spendi. Spendi. Spendi il più possibile.
 «Promuovi, promuovi. Questo è il momento giusto per vendere». Si sbaglierà il mio capo. Certamente. Noi immettiamo nel mercato libri, mica un genere di prima necessità tipo pane o latte. Ma come, non si fa che parlar di recessione e lui preme affinché io spinga le vendite?
Accadeva una decina di giorni fa, in concomitanza di un weekend lungo.
Torno  a casa perplessa. TG delle 20.30. La giornalista, con faccia triste (forse il nostro premier non ha tutti i torti: certe volte 'sti giornalisti della Rai deprimono un po'), annuncia che quello del 2008 sarà un magro Natale. Meno soldi nelle tasche degli italiani, forse Babbo Natale non ce la farà a passar a casa di tutti. Segue servizio girato tra i mercatini rionali, tra pensionati e disoccupati.
Finisce il servizio. La giornalista si rallegra. Decine di chilometri di coda in autostrada. Italiani in partenza per il ponte dell'8 dicembre. Si approfitta di questi giorni per andar a sciare, per visitare le città d'arte, una boccata d'ossigeno per il settore turistico - alberghiero.
ALT! Deve essermi sfuggito qualcosa. Insomma, siamo in crisi o no? Cioè, se ci son pochi soldi, com'è che i nostri connazionali partono? Allora ha ragione il mio capo: è nei momenti critici che bisogna incentivare i consumi. In fondo Silvio sostiene la stessa teoria, e se lo dice lui...
Che strano! La mia mamma m'ha sempre detto che nei momenti di crisi bisogna stringere i denti e la cinghia: risparmiare e non spendere soldi che non si hanno. Donna d'altri tempi, evidentemente incapace di comprendere le dinamiche dell'economia.
Poi mi trovo ad ascoltare Soru, politico, imprenditore, uomo di sinistra, un forte attaccamento alla Sardegna, la sua terra. E ciò che sento è così impopolare da sembrar rivoluzionario. Quest'uomo fa gli stessi ragionamenti di mia mamma. Sostiene che è il momento di essere oculati, che gli italiani dovrebbero tornare agli acquisti fatti con moneta sonante e non con carte di credito, finanziarie, acquisti a rate.
Sarò fuori moda ma anch'io penso che dovremmo smettere di spendere il nostro stipendio ancor prima d'incassarlo, d’indebitarci per acquistare pacchetti vacanze e abbonamenti in palestra. E, forse, dovremmo anche smettere di credere che conquistare “vent'anni  in meno è impossibile, ma per tutto il resto c'è Mastercard!”.

Passano i giorni. La GM è in crisi, l'economia mondiale frena e, per la prima volta nella storia italiana, le vacanze per tutti gli operai della Fiat inizieranno oggi, 15 dicembre. Tutti in cassa integrazione.
Il Premier, intanto, chiude la campagna elettorale in Abruzzo e, con un sorriso spavaldo, spiega agli Italiani, qualora avessero perso qualche pubblicità o non avessero fatto caso agli addobbi nelle città, che il Natale è alle porte. E non è certo questo il momento di risparmiare. Tutt'altro!, è proprio il momento giusto per spendere, per aumentare i consumi e far rimettere in moto l'economia del paese.
Evidentemente devo rispolverare il mio vecchio manuale d'economia.     

venerdì 28 novembre 2008

Artisti incompresi

«Pronto??Pronto??»
«Sì, pronto, la sento, mi dica»
«Ah. No scusi è che sentivo come un fruscio… Senta, ho bisogno di un’informazione». Silenzio.
«Prego, mi dica», intanto continuo a battere sulla tastiera del computer.
«Ehm, ma che è ‘sto ticchettio?»
Va be’, ho capito, smetto di scrivere. «Prego, mi dica»
«Ma è una casa editrice?», fa la voce tra il titubante e il preoccupato.
«Sì».
«Ah bene! Perché io avrei delle poesie da pubblicare. Se gliele mando me la pubblica?»
«Può darsi. Sa, non dipende da me. Ci invii il suo manoscritto; se le poesie piaceranno, verranno pubblicate».
«Ma se gliele invio in mattinata, mi dà una risposta per ora di pranzo? »
«No, scusi, ha fretta? Non le so dire quando le verrà comunicato qualcosa, di certo non in giornata».
«Ah, va be’, grazie. Credevo foste più seri». E butta giù. Resto a guardare il telefono. Forse era uno scherzo. 

Si ferma un taxi. 
Scende una giovane, appariscente, sedicente autrice. «Oddio Barbara, che occhi che ho stamani! Guarda, fare la scrittrice è davvero stressante». Immagino, vai a dirlo a qualsiasi lavoratore italiano che se lo paga da sé l’affitto, senza aspettare l’accredito del babbo facoltoso… sì, giocare a fare la scrittrice deve essere una roba terribile. Chissà perché i suoi racconti sono stati snobbati dall’Einaudi, dalla Feltrinelli, dalla Minimum Fax, dalla Sellerio. Inspiegabile.
«Be’, vado su che ho un appuntamento con l’editore e sono in ritardo. Mi fai portare un caffè, per cortesia?
Zi, padrona!

Sì, che stavo facendo? Ah, la posta elettronica. Perfetto, sentiamo il saggio autore in pensione cosa dice.
“Ho inviato copia del mio libro ad Augias e a Sergio Romano ma non ho ricevuto alcuna risposta”.
Ma dai? Il nostro è un paese di narratori, artisti, poeti. Tutti incompresi.
“Però ho ricevuto lettera di ringraziamento dalla Segreteria di Stato del Vaticano da parte di Benedetto XVI con apostolica benedizione. La lettera non riportava il nome della mia pubblicazione ma era comunque indirizzata a me”.

In fondo, ci vuol così poco nella vita per essere felici.

venerdì 21 novembre 2008

Esordienti

Si avvicina controvoglia.
Bisbiglia un «Ciao» accompagnato da un sorriso distratto, intanto poggia lo zaino, estrae un paio di foglietti spiegazzati, si lega i capelli e ti chiede come va. Ma si vede che sta già pensando ad altro.
Tu, invece, ti chiedi come faccia uno così a scrivere cose del tipo: “Prese i suoi vestiti, si ricompose come un puzzle incompleto, in silenzio, sotto i suoi occhi” o “[…]i pensieri come un piatto di spaghetti secchi, idee come aquiloni bucati, il passo come quello dell’ultimo maratoneta stremato all’arrivo.
Rientrò in casa, aprì prima la porta del bagno, poi l’oblò della lavatrice ed infilò la testa nella macchina. Cominciò a recitare i propri dubbi e le proprie preghiere, perché divenissero chiare, districate, pulite”. 

E pensi a tutte le volte in cui avresti voluto metterci i tuoi di pensieri nella lavatrice per poterli tirar fuori puliti, freschi. Lasciarli asciugare al sole per un po’, e poi piegarli e rimettere ogni cosa nel cassetto  giusto.  Anthony, intanto, tira fuori dalla tasca il cartoccio del tabacco, una cartina e si prepara con cura la sua sigaretta. Ha iniziato a  riflettere a voce alta: parla dell’editoria, di distribuzione libraria, di progetti in cantiere, di notti insonni…
In momenti come questi il tuo lavoro non è così malaccio. Insomma, la piccola editoria dà più crucci che sorrisi ma poi ti fa imbattere in librettini come “Trasformazioni Invisibili”. Ci si può salvare dalla Moccia-mania: c’è una speranza anche per il nostro paese.
Poi, probabilmente, una raccolta di racconti scritti da un ventiseienne piùomeno romano l’acquisteranno in pochi, perché Anthony Colannino non lo conosce nessuno, perché i racconti non tirano, perché di scrittori esordienti ce ne son fin troppi, perché la pubblicità ha un costo. Ma, se vi capita tra le mani, aprite una pagina a caso e leggete qualche stralcio di queste Trasformazioni invisibili. Potrebbero riaffiorare profumi, sensazioni, pensieri che hanno già attraversato la vostra mente in un’altra epoca, in un altro luogo. Potrebbe venir voglia di leggerlo questo libricino.
Erano diversi mesi che mancava da quella casa.
Ritrovò, accogliendoli con un sorriso nostalgico, gli odori e i sapori di quell’infanzia da poco finita: il sugo sottratto furtivamente dalla pentola, l’uomo nero sotto il letto, le confessioni con le lacrime, le poesie recitate sulle sedie della sala.”
Anthony COLANNINO, Trasformazioni invisibili, p.92, Arduino Sacco Editore.

venerdì 7 novembre 2008

YES THEY CAN

E sì, va bene, lo confesso: anch’io avrei votato per Barack Obama. Non tanto perché  “giovane, bello e anche abbronzato”,  come ho sentito dire stasera, ma perché credo rappresenti davvero il cambiamento; perché condivido molte delle cose che dice; perché, ammettiamolo, simboleggia il sogno americano; perché, leggendo la sua biografia e ascoltando le sue parole, vien da pensare che sia vero: forse esiste un paese in cui parlare di meritocrazia può aver un senso. 
E poi l’avrei votato perché il mio stomaco non avrebbe retto nel vedere Sarah Balin alla vicepresidenza. Però… Però non era mia intenzione, oggi, parlare delle elezioni negli USA perché, onestamente, ho trovato eccessiva l’attenzione che i media italiani hanno riservato al fenomeno.

La non stop della Rai, il fatto che ¾ dei TG fossero dedicati alle elezioni negli USA, i sondaggi, i continui riferimenti agli Stati Uniti come modello di democrazia. Il TG1 ha addirittura invitato i telespettatori a partecipare al sondaggio, votando “quale dovrebbe essere la priorità del 44° Presidente degli USA”… Stamani accendo la televisione e al TG3 delle 6.00  sento dire: «Ventiquattro ore fa, stavamo ascoltando il commovente discorso di Barack Obama...» Esagerati!
Ho avuto la sensazione che si sia prestata maggiore attenzione alle elezioni statunitensi che a quelle italiane. Le votazioni, normale prassi di ogni sistema democratico che funzioni,  si sono così trasformate in uno show. Eccessivo! Forse per questa ragione ho comprato il giornale ma mi son limitata a sfogliarlo; ho ascoltato distrattamente il Tg e non ero intenzionata a scrivere alcun post sulla vittoria di Obama. Poi, però, ho sentito le illuminanti parole del nostro Presidente del Consiglio e, ancora una volta, è stato chiaro il motivo per cui si preferisca parlare della vittoria di un altro Presidente piuttosto che delle vicissitudini e dei personaggi di Casa Nostra.

giovedì 30 ottobre 2008

Mr.Black and Miss White are now friends

Domenica mattina a casa dei miei. Accendo il PC, lascio Windows a fare i suoi aggiornamenti con tranquillità; vado in cucina. Torno nella mia stanzetta con una tazza di caffè fumante. Sorrido. É buffo vedere il mio moroso in icona darmi il «Buongiorno!»da Messenger. Piacevole, ma non paragonabile al morbido abbraccio in cui mi stringe al mattino, né al tuffo al cuore che provo quando apro gli occhi e lui è lì, accanto a me.
Controllo la posta: un mio ex ex collega di una vita fa mi ha scovato su facebook e vuole che confermi di conoscerlo. Un po' perplessa, clicco sul link. Diverse persone sembrano avermi cercato in questo weekend. Così ridivento amica con la maggior parte di loro; anche con nomi di cui avevo dimenticato l'esistenza. A dirla tutta, mi ritrovo ad essere amica di persone che se c'eravamo perse di vista un motivo c'era... Già; com'è che non ho cliccato sul tastino “ignore” come sarebbe stato giusto?
Scopro di aver molti amici in giro per il mondo. Scopro che qualcuno si è fidanzato, qualcuno s'è lasciato, qualcuno ha cambiato città, qualcuno è diventato amico di chi, fino a qualche tempo prima, detestava.
No Barbara, non lasciarti incastrare da questi curiosi meccanismi! Devi solo controllare la posta, verificare un indirizzo e spegnere il PC. Facebook s'illumina di nuovo. Un altro “amico” on line. Torno alla mia posta. 11 nuovi messaggi, 10 dei quali spam ma finiti nella cartella della posta in arrivo. Dimostrazione del fatto che l'antispam funziona alla perfezione! Stabilito che non ho bisogno di viagra, non voglio tentar la fortuna con i vari casinò on line, che non sono interessata a conoscere donnine nè ometti che cambieranno la mia vita, apro l'unica mail utile che mi è stata inviata.
Messenger s'illumina nuovamente: «Guarda guarda chi si vede!» E questa volta è sì un'amica che avevo voglia di sentire. Erano settimane che mi riproponevo di scriverle. Erano settimane che non lo facevo. Negli ultimi mesi, nelle nostre vite ci son state novità rilevanti. Così le mie news si perdono nell'etere, scritte frettolosamente, lasciate andare senza vedere la sorpresa nei suoi occhi. Le sue news invece m'investono mentre si apre un'altra finestra in cui qualcun altro mi sta dicendo “Ciao!”. Sono distratta; non riesco a dar il giusto valore alle sue parole. Messenger non ha le faccine adatte  a mostrare quanto sia felice per lei, ed io non ho righe da rileggere per poter catturare questo momento per sempre.
La conversazione s'interrompe bruscamente. Esco da tutte le chat e spengo il PC. Mi son persa nella rete, dimenticando di fare l’unica cosa che avrei dovuto fare. Un’altra ora e mezza della mia vita polverizzata senza neppure rendermene conto.

Lunedì mattina. Inizia una nuova settimana.  
Il mio collega arriva in ufficio trafelato. Accende il computer ed esulta: «923 amici! Ci siamo quasi! Il traguardo delle 1000 amicizie è dietro l’angolo…»
Di nuovo facebook. Mi perseguita.
A pensarci bene, Facebook sembra essere il perfetto sostituto virtuale dello struscio del sabato sera.
«Ma hai visto il profilo di Elisa? Fidanzata! E da quando? Ma lui chi è?»
«Hai letto il messaggio di Marco? Secondo me, stasera esce con Marta…»
Uno spazio in più per lasciare informazioni senza dire niente.
Da quanto non scrivo più una e-mail vera? E una lettera? Sì, da quanto non perdo un po’ di tempo per scrivere una lettera? Una di quelle in cui si spende un po’ di sé, ci si lascia andare per poi tornare su quanto scritto, per analizzare i propri pensieri senza ridursi alle solite frasette di circostanza.
Facebook riflette questa vita frettolosa: amicizie che si riducono ad un incontro casuale al supermercato, al suono di un clacson quando ci s’incrocia, parole al vento:«Allora ci sentiamo uno di questi giorni con un po’ più di calma». Ma poi la calma sembra non arrivare mai.
E allora, senza voler demonizzare nulla, chè gli estremismi non hanno mai prodotto risultati costruttivi, penso che sarebbe bene vedere i vari social network, Facebook, Messenger, e tutte le altre diavolerie da  internauti per quello che sono. Un gioco.
Un gioco utile e piacevole, fintanto che dà il pretesto per scrivere, per raccontarsi, per far sbizzarrire l’immaginazione, per ricontattare amici che non vedevi da un po’. Senza però permettere alla superficialità d’accaparrarsi un nuovo spazio. Chè i nostri rapporti sono già sin troppo superficiali.

giovedì 9 ottobre 2008

Giorni e nuvole

Ci sono giorni in cui apri gli occhi e sei già stanco,
giorni in cui sorridere è doloroso,
giorni in cui l’azzurro del cielo non basta a farti canticchiare.

Ci son giorni che si svegliano col magone,
un senso di vuoto senza un perchè.
Son solo giorni…

mercoledì 8 ottobre 2008

Diari

Roma, Villa Celimontana, primo Festival della letteratura di viaggio. “Il mestiere del reporter”, intervengono Ettore Mo, Paolo Rumiz, Stenio Solinas, Angela Staude Terzani.
Fresca serata di fine settembre, venerdì per giunta, giornata in cui, solitamente, la mente è affannata e insofferente, poco interessata a ricevere nuovi input. Non che di questo Festival della letteratura di viaggio se ne sia parlato granché ma, tanto che ci sono, un salto potrei pure farlo. In fondo è un’altra occasione per ascoltare Ettore Mo, i cui reportage hanno sempre il pregio di farmi volar via da questo Paese.
Non so bene cosa mi aspettassi, so però che quanto ascoltato ha avuto un benefico effetto sul mio cervello, svegliandolo dal torpore del venerdì. Stamani alcune di quelle frasi, pronunciate ormai diversi giorni fa, mi son passate davanti ed ho sentito il bisogno di appuntarle.
Si è parlato di viaggi, di diari, del perché dello scrivere, del ruolo del reporter: osservazioni tanto semplici quanto veritiere, solo che hai la sensazione che se queste riflessioni non le butti giù subito, nel momento stesso in cui vengon dette, le perderai per sempre.
Il Diario. Sì, ricordo il primo diario segreto che ricevetti in dono una manciata di anni fa. Già, c’era scritto proprio così, “Diario Segreto”. Avevo otto – nove anni e non capivo esattamente cosa potesse esserci di così segreto nella mia vita da dover esser racchiuso in quel quadernetto rosa, dalla copertina rigida, con tanto di lucchetto e chiavetta. E poi, dove diamine avrei potuto nascondere quella chiavetta? Alla fine, decisi di dare un nome a quel diario. In fondo, se doveva custodire i miei segreti e se doveva assumersi la responsabilità di essere un amico fidato, mica potevo rivolgermi a lui con un banale “caro diario”? Mi lambiccai il cervello per un po’: non era mica consono per una femminuccia raccontare i pensieri più intimi ad un maschietto. Nient’affatto! Fu così che il mio primo diario diventò Rose, l’amichetta del cuore.
Com’è che son finita a raccontare questa storia? Ah, già, seguendo i pensieri della Staude Terzani, moglie di Tiziano Terzani. Quando le è stato chiesto perché sia così importante annotare la propria vita in un diario, tra le varie motivazioni, ha candidamente osservato: “Per non dimenticare”.

“Quando vi chiederanno: «Com’era il Festival?», ve ne verrete fuori con un «Bello».
Sì, ma perché? Cosa c’era? «Gli alberi», risponderete voi prontamente. «E poi c’erano Ettore Mo e altri reporter che parlavano dei loro viaggi e delle loro esperienze». E questo è tutto.
Il resto sarà già volato via, perché la memoria è labile.
E poi il diario serve a riorganizzare le proprie idee per capirle. Ed anche un po’ per rielaborarle. Tanti libri sono nati da semplici diari, da appunti di viaggi. C’è chi sostiene di viaggiare per scrivere”.

Ho pensato a quale fosse la mia idea di diario, rimpiazzata oggi, a volte, dal blog. Ho sempre scritto per non dimenticare. Ma anche un po’ per romanzare la mia vita. Quando racconto, inevitabilmente aggiungo e tolgo elementi che avrei voluto accadessero o non accadessero. Così finisce che quando mi rileggo a distanza di anni, l’immaginazione è diventata parte della realtà: non so più cosa sia accaduto e cosa sia stata solo sognato. Ma ormai è stato scritto, è diventato parte inscindibile del vissuto.
Anch’io scrivo per capire. La realtà è troppo complessa da gestire. Le immagini si sovrappongono, i pensieri si affollano, le parole rimbombano e tu non sai più cosa stia accadendo intorno a te. Scrivere allora è come fare ordine su una scrivania su cui per giorni e giorni hai accumulato giornali appena sfogliati, articoli ritagliati e lasciati lì in attesa d’esser archiviati, bottigliette d’acqua vuote, tazze macchiate di tè. Le cose vanno selezionate e messe al loro posto. Solo allora si potrà riprendere a lavorare.
Così fa la scrittura. Sintetizza alcuni pensieri, ne amplifica altri, ti fa soffermare e approfondire alcuni temi e cestinarne altri. Torna l’ordine.
Solo allora si può ricominciare a guardare la realtà con occhi diversi.

venerdì 19 settembre 2008

Malinconie d’autunno

Sembra non voler più smettere.
Fossi stata nella mia casetta segnina, avrei cacciato il naso fuori per assaporare il profumo della terra bagnata che assorbe avidamente queste gocce che sanno d’autunno. Sarei rimasta ipnotizzata dal ritmo cadenzato della pioggia. Nonostante i brividi, avrei aspettato un po’ prima di rientrare e indossare una felpa. Alla fine avrei preparato un tè al gelsomino e, sorseggiandolo, mi sarei detta che, in fondo in fondo, anche l’autunno ha il suo fascino.
Ma nella periferia romana la pioggia non profuma. Uno squarcio di cielo grigio, un alberello triste dalle foglie dal colore… già, di che colore sono le foglie degli alberi che sopravvivono all’oppressione della città? Forse grigio metropolitano. Auto parcheggiate dappertutto. Il suono di un clacson che sovrasta gli altri rumori.
Non posso lasciarmi sopraffare dalla nostalgia di un’estate evaporata senza preavviso. Cerco rifugio tra le parole e l’odore dei libri.

mercoledì 17 settembre 2008

A mani nude

È una notte che s’adagia sulla rabbia di Mariani e sul tetto della sua fabbrica di giocattoli e sulla città mezza addormentata davanti alle tv che raccontano facce preoccupate dei concorrenti dei quiz. S’adagia sulla finestra della camera di Lisa, sulle gambe lunghe e sulla sua collezione di foulard. Una notte che avvolge il corpo di Narcos accucciato sotto le coperte, con la testa sotto il cuscino e le ginocchia al petto. Un buio che nella testa di Narcos riesce a tenere a distanza le cose, capace di far sembrare che neanche esistano, di confondere e rendere clementi anche le sensazioni più feroci.                                                        
“A mani nude”, Stefano Martufi

Un racconto senza luogo né tempo, dal ritmo incalzante ed intenso. La mano che si lascia trasportare dalle parole. Una punteggiatura irregolare che dà ancora più energia alle azioni, trasformando la scrittura in immagine.
“A mani nude” ha un retrogusto amaro; ti lascia una senso d’inquietudine che ti si appiccica addosso (espressione cara all’autore), t’accompagna al lavoro, ti segue in metro ed entra con forza la sera nel tuo piccolo appartamento.
È la prima volta che mi capita tra le mani un racconto originale edito dalla casa editrice con cui collaboro (non me ne voglia l’editore che, presumibilmente, non leggerà mai questo post. E che, comunque, conosce bene il mio pensiero in merito) e mi fa piacere pensare che ad aver scritto questo librettino di appena 70 pagine sia stato un mio quasi conterraneo (siamo entrambi originari della Ciociaria).
Quindi, scusate il doppio conflitto d’interessi (territorio d’appartenenza e connessione con la stessa casa editrice) ma, in fondo, in tempi di leggi ad personam, il favoreggiamento non è più reato.

venerdì 29 agosto 2008

Donne e potere

Udite, udite, i berci delle arpie son finiti!

«Ma con che sfacciataggine hai mollato un luogo di lavoro con siffatto panorama?», vi starete chiedendo voi.

Eh, lo so! Anch’io ero rimasta ammaliata dal placido fluire del Tevere.  Ma, almeno voi, non lasciatevi incantare dalla vista spettacolare di cui godevo quotidianamente, né dal fatto che, caspiterina!, un contratto nel settore del “cinema e spettacolo” non è mica roba che capita di frequente nella vita dell’italiano medio. 
L’ufficio, che non aveva le sembianze dell’ufficio bensì di uno stravagante appartamento nel cuore di Roma, a metà strada tra il calore del rione Testaccio e la magia di Trastevere, l’estro del capo (anzi, della capa), l’entusiasmo di trovarsi circondato da pellicole, betacam, vhs e una serie di aggeggi oscuri… Mmm, troppe robe affascinanti! Avrei dovuto sentir subito puzza di bruciato. Ma no! È sempre la visione romantica della vita ad avere la meglio!
In fondo, come poteva il tanto favoleggiato mondo del cinema nascondere uomini e donne perennemente sull’orlo di una crisi di nervi, urla, musi lunghi, astrusità, irascibilità? Altroché se poteva! Dagli ultimi nove mesi trascorsi in una società che opera nella post produzione cinematografica ho ricavato un insegnamento: se non si è psicologicamente instabili non si può lavorare in questo settore. 
Il kit di sopravvivenza minimo prevedeva spirito di sopportazione (tanto), dedizione (di più), una manciata di masochismo (q.b.) e un’innaturale tendenza nel disporsi a zerbino e farsi calpestare per bene. Insomma, avere stomaco! Solo che a me era venuta la gastrite e la posizione a zerbino non è mai stata una delle mie preferite. Che dovevo fare? Sottostare in silenzio e, stoicamente, resistere? Gentilissimi, grazie, non ho ancora ben chiaro cosa farò da grande ma non credo il martirio faccia per me.
No, via, ora non voglio recitar troppo il ruolo della vittima perché non sarebbe corretto; non posso però trattenere un’osservazione impopolare ma seria. Mi spiace aver sperimentato, per la seconda volta, l’incapacità delle donne “al potere” di gestire, apprezzare, valorizzare i propri collaboratori. Instancabili lavoratrici, pignole, perfezioniste, bravissime nel rispettare scadenze e impegni presi, si trasformano poi in insuperabili iene nel rapporto quotidiano con i propri dipendenti e collaboratori, dimenticando che se una società cresce è soprattutto merito di chi ci lavora e non solo di chi ha in mano le redini del gioco.
Forse se, anziché digrignare i denti ed abbaiare, si provasse a comunicare e a trattare i propri collaboratori da esseri umani, ne gioverebbe non solo l’equilibrio psico-fisico del dipendente ma anche l’azienda. Forse basterebbe accendere un sorriso prima di avviare il computer per creare un ambiente di lavoro più sereno e smorzare tensioni e malumori. Piccoli gesti a quanto pare difficili da attuare.
Ferme tutte, simpatiche blogger pronte a rispondermi per le rime!

Non amo generalizzare. So che il mondo pullula (mi auguro) di brillanti cape, così come ci sono numerosi boss (maschi) nei cui dizionari deve ancora far capolino l’espressione “risorse umane”. La mia è solo la considerazione di una qualsiasi trentaduenne flessibile (perché il precariato in Italia non esiste, come ama ricordare la nostra classe dirigente.  Dopo aver tanto studiato, dovremmo pur saper dare il nome giusto alle cose, no? Si chiama flessibilità!), che di lavori ne ha fatti diversi e che ha amaramente constatato che, a volte, gli uomini sono più bravi. Peccato… 

mercoledì 27 agosto 2008

La morte in banca

«Buongiorno, mi dica», fa l’impiegato con aria stanca. Non so perché ma mi torna in mente Carabba, il protagonista di un delizioso racconto di Pontiggia, “La morte in banca”.
(“Dopo tre settimane Carabba ha imparato a distinguere, nella piccola folla che sale ad ogni fermata del tram, gli impiegati di banca. E non solo della sua, ma anche di altre, sono sempre le stesse facce”).
Torno in me. «Buongiorno! Voglio chiudere il mio conto corrente», dico con un sorriso.
«Ah!, allora deve rivolgersi al collega lì dietro» risponde, visibilmente sollevato, indicando una sorta di separè e l’ombra del collega.
L’ombra ha gli occhiali, una maglietta blu, un viso cordiale e una targa sulla scrivania che recita Massimo Vattelappesca, family qualcosa. «Buongiorno, mi dica». 
Ci risiamo. «Buongiorno. Voglio estinguere il mio conto corrente». Estinguere sa di definitivo. “Chiudere” invece lascia uno spiraglio, la possibilità di un ripensamento.  
«Signorina, cosa mi dice mai? Le sembrano affermazioni da fare queste in una splendida mattinata di fine agosto?», sussulta tra lo scandalizzato e l’affranto. Poiché è la seconda volta a distanza di tre mesi che varco la soglia dell’agenzia con lo scopo di dare l’estrema unzione al famigerato conto corrente, e poiché sono contraria all’accanimento terapeutico, respiro, tiro fuori un’espressione risoluta e:«Guardi, questo siparietto l’abbiamo già recitato qualche settimana fa. Lei è simpatico, giuro! Non ce l’ho con lei anche se lavora per un istituto di credito che applica tassi usurai. Non se ne dispiaccia. Le prometto che di tanto in tanto le invierò una mail e passerò a salutarla. Ma ora chiuda questo maledetto conto corrente»
Il cordiale Massimo Vattelappesca inspiegabilmente smette di esser cordiale. «Guarda che te ne pentirai. Tornerai qui tra qualche mese dicendomi “Avevi ragione, avevi ragione! Le vostre condizioni sono le migliori presenti sul mercato. Che errore madornale ho commesso”»
Curioso. Se sono una correntista merito il “lei” e un sorriso affabile. Se sono un Giuda mi tocca il “tu” e un tono minaccioso.
«Allora tornerò mortificata, chiederò umilmente perdono per aver tanto peccato e confiderò nella vostra misericordia, certa di trovarvi pronti ad accogliere la pecorella smarrita che ha ritrovato la retta via».
«Spiritosa», bisbiglia  a denti stretti, «ti consiglio di fare un versamento o un bonifico per far fronte alle spese di chiusura…»
ALT! «E il famoso decreto Bersani?»
«Che c’entra?! Intendevo le normali spese di gestione», ignorante!, vorrebbe aggiungere, ma si trattiene. «Non ho mica fatto riferimento alla penale per l’estinzione. E comunque il conto corrente non lo posso chiudere finché non riceviamo la raccomandata in cui metti per iscritto il tutto». Trasalgo. Devo essermi distratta un attimo. «No, scusa. Vediamo se ho capito bene. Io, titolare di un conto corrente, vengo fisicamente in agenzia. Ti supplico di uccidere il mio conto corrente già in fin di vita; restituisco carta di credito e bancomat che vengono tagliate davanti ai miei occhi. Ribadisco che sono convinta di ciò che sto facendo ma tu, pronto a venirmi incontro nel momento del bisogno, non puoi aiutarmi perché devo uscire da qui, fare i 200 metri che mi separano dall’ufficio postale e inviarti una raccomandata ripetendo tutto ciò che ti ho detto nel corso dell’ultima mezz’ora?»
«Esatto». Già, com’è che non ci son arrivata da sola?
«Ma a maggio, tre mesi fa, mi avevi detto (sì, era sempre lui, lo ricordo perfettamente) che dovevo venire di persona e firmare un paio di moduli e che non c’era altra possibilità di estinguere il conto senza recarmi materialmente in agenzia».
«Naturalmente. Ma era prima della migrazione».
Ovvio. Fusioni, migrazioni… C’è un non so che di poetico nel meraviglioso mondo degli istituti di credito italiani. Mi alzo. Sorrido. «Allora vado all’ufficio postale. Grazie mille e buona giornat…» Il family qualcosa mi ha già voltato le spalle.
È l’arte di semplificare la nostra vita a rendere questo paese così affascinante.   

lunedì 25 agosto 2008

Belfast

Torino, maggio 2008. Vagavo disorientata tra gli stand della tanto osannata Fiera internazionale del Libro. Erano anni che, all’inizio di aprile, mi ripetevo: «Questa volta devo andare». E poi, per ragioni diverse, finivo con il rimproverarmi che: «Anche quest’anno mi son persa il salone del Libro di Torino! Ma l’anno prossimo…»
 
Magicamente, l’anno prossimo giusto è stato quello in corso. Abituata alla Fiera della piccola e media editoria di Roma, Torino mi ha lasciato senza respiro per un’intera giornata. Fortunatamente ero con Fabio, il mio guru in materia di libri, cui toccava l’ingrato compito di frenare la mia ingordigia qualora mi fossi fatta prendere un po’ troppo dall’entusiasmo.
Avevamo già concordato un: «E con questo basta per oggi», quando ci ritroviamo davanti allo stand della Fazi editore. Non che abbia letto tutto ciò che la Fazi pubblica, solo che quello che ho letto mi è sempre piaciuto moltissimo; e poi , come potevo ignorare lo sconto fiera? Avevo l’obbligo morale di acquistare “Eureka street” di Robert Mc Liam Wilson.
Il libro, in edizione tascabile, è rimasto parcheggiato per un po’ a casa dei miei, insieme ad altri volumi comprati in un momento di smania da shopping. Ha subito silenziosamente l’ennesimo trasloco della mia vita e si è ritrovato nella solitudine della nuova libreria nella mia attuale casetta. Il mese scorso mi ha accompagnato a lavoro per un paio di giorni. Nonostante l’incipit invitante e le numerose recensione lette, non c’era nulla da fare. Non riuscivo ad andar oltre pagina 39. 
È  stato ingiustamente accantonato per un po’. Poi, la settimana scorsa, mi è tornato tra le mani e mi son chiesta come diamine avessi fatto un mese prima a non farmi trascinare a Belfast dagli strampalati personaggi di Eureka Street. Quando incontri un libro come questo, infatti, quei 40 minuti di treno che ti separano dal tuo ufficio diventano uno dei momenti più attesi della giornata e, improvvisamente, capisci perché ti piaccia tanto fare la pendolare.

"Questa notte le strade odorano di vecchio e di fatica. L’aria gronda di rimpianti e di desideri. Il tempo non si ferma mai. La città sente il peso degli anni.
 
Per quanto incantata e sfavillante, Belfast parla chiaro. Le bandiere, le scritte sui muri e i fiori sui marciapiedi parlano chiaro. È una città in cui la gente è pronta a uccidere e a morire per pochi brandelli di stoffa colorata. […]
 
Dovreste fermarvi una notte in Cable Street, e mentre il vento vi sferza il viso, ascoltare immobili, in estasi, la voce di un passato sconosciuto. Allora non riuscireste più a staccarvi questa città di dosso. 
In centro e nei quartieri popolari, le strade, come luci nella casa dei vicini, raccontano di gesti, desideri, sofferenze e ricordi.
"L’intera superficie della città pullula di vita. Il terreno è reso fertile dalle ossa dei suoi innumerevoli morti. La città è uno scrigno di storie e di racconti presenti, passati e futuri. È un romanzo. […]
Gli uomini e le donne che vi abitano sono racconti affascinanti, infinitamente complessi. […] È impossibile rendere la grandezza e l’incanto di un’ora nella giornata di un qualunque abitante di Belfast. Nelle città le storie si incrociano e si intersecano, i racconti si incontrano, si scontrano, si fondono e si trasfondono in una Babele di narrazioni." 
(R. Mc Liam Wilson,”Eureka Street”)

“Eureka Street” è Belfast. Non che ci sia mai stata fisicamente ma nel corso dell’ultima settimana ci son stata catapultata. È sufficiente il capitolo decimo (che ho voluto farvi assaggiare) per restare affascinati dalla capitale dell’Irlanda del Nord e dalla capacità descrittiva di Wilson. I protagonisti di “Eureka Street” sono Belfast. Poco conta che siano cattolici o protestanti, sfacciatamente ricchi o estremamente poveri, conservatori o progressisti. Sono impregnati di Belfast. Ruotano intorno agli attentati, alle proteste, ai treni della pace, alla capacità di vivere una vita normale in una città a cui hanno strappato il cuore. E da cui, ciononostante, non riescono a star lontani. 
Arrivi alla fine del libro che proprio vorresti poter uscire con Jake, Chuckie, Max, Deasely. Vorresti andar a prendere una birra con loro, un venerdì sera al Wigwam, e sentirli raccontare le loro improbabili giornate, con tutto l’umorismo che solo un gruppo di sfigati intelligenti sa tirar fuori.
E invece non puoi far altro che rileggerti le frasi più esilaranti del libro, quelle che ti hanno commosso e quelle che ti hanno emozionato. Perché si possono raccontare situazioni tragiche, come l’attentato in Fountain Street, senza necessariamente dover ricorrere a toni patetici e melodrammatici.
Un libro coinvolgente, di quelli che porteresti volentieri sulla famosa isola deserta.

Peccati di gola

“Penso sempre che ogni cosa durerà in eterno, ma non è mai così. In realtà, niente esiste per più di un istante, tranne ciò che custodiamo nella memoria. Cerco sempre di conservare dentro di me ogni momento - preferire morire piuttosto che dimenticare. Eppure, allo stesso tempo, non vedevo l’ora di andare a San Francisco, di lasciarmi tutto alle spalle. Così è la vita – non c’è modo di capirne il senso.”
“Firmino”, Sam Savage, Ediz. Einaudi Stile Libero

Metti che è da un paio di mesi che non riesci a leggere più di venti pagine consecutive dello stesso libro. Metti che non fai che saltare distrattamente da un volume all’altro senza che nessuno fra questi riesca a catturarti. 
Metti che hai appena dato le dimissioni.
Metti, infine, che il capo (che stai per mollare), personcina precisa e particolarmente affezionata alle sue cose, ti osservi mentre sbirci con aria incuriosita la sua scrivania su cui giace intonsa una copia di Firmino, caso letterario dell’esordiente Sam Savage. Metti che la personcina particolarmente gelosa delle proprie cose di cui sopra, ti sorprenda con un: «Ma tu l’hai letto?». E siccome mentire non ti riesce proprio bene, ti tocca rispondere con un: «No. Diffido sempre dei casi letterari che occupano i primi posti delle classifiche dei libri più venduti. Però questo m’incuriosisce…»
 
«Anche se è da un po’ di tempo che non riesco a leggere», ma quest’ultima cosa te la tieni per te.
 
«Beh, se non l’hai ancora letto, prendilo pure, te lo presto. Io chissà quando riuscirò ad aprirlo. E poi, sai», mi dice con tono sommesso, «è da un po’ che non riesco più a legger nulla. Sarà la stanchezza…», conclude il quasi ex-capo a mo’ di giustificazione.
 
Provo, invano, a rifiutare l’invito al prestito. Alla fine, vado via con Firmino tra le mani e due preoccupazioni in più: il terrore che, abituata come sono a legger in metro, treno, bus, il volumetto dell’Einaudi mi si possa macchiare, sciupare, cadere rovinosamente. E l’ansia di non esser in grado di leggerlo prima che termini il periodo di preavviso. Che figura farei con il quasi ex-capo? 
 
Allora, ricorda che questo libro non puoi sottolinearlo, glossarlo, fare appunti di qualsiasi genere come sei solita fare. (Accidenti! Proprio questa volta che ho trovato ben due refusi, dico due, su un’edizione Einaudi, non posso cerchiarli con la matita colorata a mo’ di maestrina da scuola elementare. Sob!) Ricorda che non puoi lasciare il libro dove capita; fa attenzione quando lo infili in borsa e sbrigati a leggerlo!
 
Un po’ scettica, qualche giorno fa, ho iniziato la lettura. Non so com’era la versione originale, ma la signorina Evelina Santangelo, che ne ha curato la traduzione italiana, ha fatto un gran bel lavoro.

“Avevo sempre immaginato che la storia della mia vita, se un giorno l’avessi mai scritta, sarebbe cominciata con un capoverso memorabile: lirico come il «Lolita , luce della mia vita, fuoco dei miei lombi» di Nabokov o, se non altro, di grande respiro come il tolstojano: «Tutte le famiglie felici si assomigliano fra di loro, ogni famiglia infelice è infelice a suo modo». La gente ricorda espressioni del genere anche quando del libro ha dimenticato tutto il resto. Comunque, a proposito di incipit, il migliore a mio avviso non può che ritenersi quello del Buon soldato di Ford Madox Ford: «Questa è la storia più triste che abbia mai sentito» […] Forf Madox Ford è stato Un Grande.”
Diciamocela tutta: un libro che inizia così, è un chiaro invito alla lettura. Difficilmente si lascia abbandonare, anche se è da un po’ che non riesci a leggere e sei alla ricerca della concentrazione perduta.
La storia è ambientata nella Boston degli anni Sessanta. Firmino è un topo dalla testa pesante e dal corpicino rachitico. “Una mezzacalzetta”, come lui stesso si definisce. Tredicesimo cucciolo della nidiata di mamma Flo, una pantegana costantemente ubriaca, ha la fortuna di crescere in una nota libreria di Boston, Pembroke Books. Inizia a sbocconcellare i libri che lo circondano per puro spirito di sopravvivenza ma poi, anziché mangiarli, inizia a leggerli, scoprendo che i libri più sono belli e più sono buoni. Insomma, leggere è un peccato di gola: i libri buoni non puoi che divorarli.
Firmino si lascia leggere piacevolmente portandoci da un classico della letteratura russa ad uno della letteratura francese. Allungando la lista dei libri che vorremmo leggere e quella dei libri che dovremmo rileggere.
Osservando qualche commento lasciato sui vari circoli di lettura on line, ho incontrato numerose critiche negative. Firmino non è il cosiddetto librone, ma credo che, acquistandolo, nessuno si aspetti di avere tra le mani un capolavoro della letteratura contemporanea. È leggero, ironico, con buoni spunti riflessione sparsi qua e là.
Leggo di una curiosa somiglianza tra Firmino di Sam Savage e “La bibliotecaria” di Claudio Ciccarone, pubblicato nel 2000 e avente come protagonista la tarma Marta (http://www.wuz.it/articolo/2339/savage-ciccarone-firmino-marta.html). Interessante ipotesi di plagio. Mi toccherà procurarmi anche il libro di Ciccarone. Ad ogni modo, Firmino un merito ce l’ha: quello di avermi riavvicinato alla lettura,che garantisce sempre viaggi meravigliosi a costi modesti, evita le file ai caselli autostradali e le attese negli aeroporti nella speranza di rivedere i propri bagagli sul tapis roulant.
I libri ti permettono di viaggiare anche quando stai andando in ufficio, fa un caldo bestiale e vorresti proprio esser altrove. Un buon libro riesce sempre ad aprire una finestra sull’altrove.

mercoledì 20 agosto 2008

Altrove

Capita che il lavoro ti porti altrove. 
In realtà scandite da altri ritmi, fuori dalla crisi finanziaria, lontane dal crollo delle borse, dalla speculazione, dal frastuono della città. Qui si sentono solo i campanacci delle mucche, sebbene non sia riuscita ancora a capire dove siano le mucche, il rumore di una smerigliatrice in lontananza; di tanto in tanto il rombo di un’ auto.  
Non sono donna di città io, eppure è la prima volta che attraversando un paesello avverto così tanti occhi che mi scrutano dietro tende bianche, fatte all’uncinetto. Cammino nella via principale del paese, Via del Plebiscito. Ore 15,00 di un qualsiasi lunedì d’ottobre e un capannello d’uomini smette di parlare. Seguono i miei passi, i miei gesti.
«Non è di qua…», sento mormorare.
Un vociare di donne. Alzo lo sguardo: tre signore senza età, vestite a lutto ricamano sedute su un balcone, approfittando del tepore di questa giornata che sa ancora d’estate. Rivedo la mia bisnonna, seduta sulla sua poltrona di vimini di fronte alla finestra, che a novant’anni fa la calza utilizzando rimasugli di lana colorata. Bellissime le calze da notte che riusciva a confezionare in poche ore. Peccato non averne conservato neanche un paio. 
Continuo a perdermi tra le viuzze di questo paese con salite che fanno venire il fiatone e discese che aiutano a riprendere il respiro. Non t’aspetti tanto bianco in un paesino di montagna. Il terremoto dell’Ottanta ne ha cambiato il volto. Il candore degli edifici, ristrutturati da poco, abbaglia. L’odore del cemento armato s’intona poco con i vecchietti con la coppola che accatastano la legna davanti al portone principale, «ché qui la notte fa freddo». 
«E voi da dove venite?» Voi, cioè io.  Forestiera e donna: il voi è obbligatorio. «Da Roma… »
«Ah!, dal Nord…» Ahivoglia a spiegare che a Roma ci lavoro soltanto e che Bossi in Ciociaria non c’è ancora arrivato. «Sempre al Nord state».

E in quest’altrove, Roma sembra davvero lontana.

mercoledì 13 agosto 2008

E mò basta!

Eccomi di nuovo qua. 
No no, non ero partita senza avvertirvi. Ero semplicemente assente. Strattonata da due lavori, persa tra il telefono che squillava, il tempo che correva, l’ansia di arrivar in ritardo, la metro che non passava, l’aria irrespirabile di Roma nel mese di luglio, l’incapacità di dire “NO!”. Perché dire un: «Mi spiace, ma adesso non posso» o «Ora è tardi, ne riparliamo domani», alle volte è così faticoso che si finisce per rispondere sempre con un laconico: «Sì, subito».
Poi, un bel giorno, senti svegliarsi dentro di te una vocina ribelle che urla un liberatorio: «E mò basta!» e ti ascolti mentre dici: «Ho un impegno. Oggi devo andar via».
L’aria della collina rende sempre il caldo più sopportabile.  Tanto verde, la voce degli alberi, i covoni di fieno ammonticchiati laggiù in lontananza. Ed io che giro tra i rovi alla ricerca di more. Eh già, mi spiace ma oggi non potevo trattenermi in ufficio più del dovuto perché dovevo andar per more. Esigenza vitale.
Ma tu, sì, dico a te che sei finito su questo blog per caso e ti chiedi perché diamine stia continuando a leggere questo post insensato, da quanto tempo non stacchi la spina? Da quanto tempo non ti concedi qualche ora per camminare nel verde, rilassarti, ascoltare il suono dei tuoi pensieri, ritrovarti?
A volte bastano quattro passi all’aria aperta per ridimensionare i problemi, rimettere in ordine le idee e fare il pieno di energia positiva.
E magari ricominciare anche a scrivere più assiduamente su questo blog.

lunedì 21 luglio 2008

Spegnete quel condizionatore!

“Non c’è niente di peggio di un quotidiano acquistato e non letto”, diceva Francesca ai tempi dell’Università. “Io, ormai, il giornale lo compro solo quando torno a casa dai miei. Il viaggio in treno servirà pure a qualcosa, no?”
Gli anni dell’università sono, ahimè!, lontani ma da quando ho cominciato a fare la pendolare e a prendere il treno con una certa frequenza, il quotidiano è entrato di diritto nel mio personale paniere dei beni. E ho fatto un po’ mia anche la filosofia di Francesca. Così, il pensiero di quella Repubblica acquistata giovedì e rimasta intatta, diciamocelo, mi rodeva un po’. Allora, questo pomeriggio, a distanza di ben tre giorni, ho ripreso il giornale tra le mani mentre un caldo sole dava sollievo alla mia cervicale, e ho iniziato a sfogliarlo. E woilà!, come per magia, m’imbatto nell’inchiesta giusta al momento giusto.  Il volto di un tipo occhialuto dall’aria affranta e dalla fronte grondante goccioline di sudore racchiude l’essenza dell’articolo.
“Dopo anni di libera aria condizionata, di lame ghiacciate nelle cervicali dei dipendenti pubblici e di uffici comunali con temperature (in piena estate) da banchisa polare, i Governi hanno varato ufficialmente la battaglia dei 24 gradi”. (Ettore Livini, la Repubblica, giovedì 17 luglio 2008)
“Abbassate quei condizionatori”, tuona il titolo dell’articolo nella pagina successiva. E giù a snocciolare i numeri del risparmio energetico ottenuto alzando di un paio di gradi il livello dell’aria condizionata. Ora, ad esser sinceri, ad accendere il mio entusiasmo non è tanto la coscienza ecologista e sostenibile nel leggere le dichiarazioni di Legambiente, bensì un banalissimo senso di rivalsa nei confronti delle arpie per le quali lavoro. Ebbene sì!, è arrivato il momento di utilizzare questo blog come strumento per denunciare pubblicamente le angherie che un povero lavoratore dipendente è costretto a subire.

Insomma, per farla breve, responsabili della mancata lettura del quotidiano giovedì scorso sono stati proprio i malefici condizionatori e le manie dei miei superiori. Ma dico, è proprio necessaria l’intervista dell’illustre medico per spiegare che una temperatura di 20°C all’interno di un ufficio, mentre fuori imperversa il caldo torrido, potrebbe causare l’insorgere di malanni, emicrania, problemi all’apparato respiratorio, tensioni muscolari? Dopo giorni di brusca alternanza tra la temperatura autunnale dell’ufficio e l’afa romana da mese di luglio, non mi son stupita tanto nel constatare che ero riuscita a beccarmi la febbre in piena estate, con conseguente incapacità di leggere qualsiasi cosa, fosse anche un’inchiesta sull’aria condizionata a 24°C per salvare la terra.
Ma lo sapevate che la  Cina e la  Corea hanno alzato a 26° l’asticella della temperatura minima negli uffici pubblici? E che da quando l’Eni ha promosso l’abbigliamento casual dei propri impiegati, in assenza di cravatte e camicie che aumentavano la temperatura corporea, si è stimato un risparmio sulle spese energetiche del 9%?
Ma se la mettessi sul piano dell’enorme risparmio sulle bollette elettriche future, dite che le arpie si convincerebbero ad oltrepassare la soglia dei 20°C e a farmi superare senza troppi malanni anche quest’estate?

Domani, quasi quasi, ci provo.

Caderno de viagem

Perché questo viaggio è stato così speciale?
In fondo sono stati solo sei giorni, neanche tanti. Per lo più a Lisbona.
 
In fondo il Portogallo è dietro l’angolo; non è una meta esotica, non parla una lingua incomprensibile. E, allora, cosa ha reso questo viaggio tanto singolare?

Sarà stato il fantasma di Pessoa, a lungo cercato e finalmente scovato in Rua dos Douradores; saranno stati i deliziosi pasteis di Belem, la pace del Parque de Pena di Sintra, la magia del Castelo de São Jorge… Forse, sarà stato il piacere di partire di nuovo da sola, per il mio viaggio, un viaggio senza tempo. Ecco cosa ha reso diversa questa partenza dalle precedenti. Stavolta non scappavo da nulla, non andavo alla ricerca di un’altra casa, di un’altra vita, di un’altra identità… Non avevo mete impossibili da raggiungere né sentieri prestabiliti da seguire. Non c’era l’ansia di vedere il più possibile senza assaporare niente. Potevo perdermi tra i vicoli dell’Alfama o fermarmi a mangiare calamari in Rua dos Correios. Potevo fare quattro chiacchiere con camerieri, commessi, signori seduti davanti a un bar. Potevo visitare il Museo Calouste Gulbenkian e poi prendere un treno e raggiungere le spiagge di Cascais. E prendere la bici e pedalare, pedalare, pedalare respirando il profumo dell’Oceano Atlantico e l’allegria dei surfisti.
 
Il piacere dei minuti che trascorrono senza fretta; il piacere di chiacchierare con degli sconosciuti e scoprire che non si è mai da soli; il piacere di fermarsi a scrivere; di svegliarsi riposata; di andare a letto serena; il piacere di scoprire strade a lungo immaginate e ora reali. La realtà che ha un sapore più dolce della fantasia.
Lisbõa è il profumo delle stanze che sanno un po’ di chiuso; le stanze della nonna, quelle dalle pareti spesse, i soffitti alti, le imposte socchiuse. È un odore che sa di passato, di lunghe notti e giorni operosi, di minestre e serate intorno alla tavola. Un odore buono, quello delle cose semplici che dà sicurezza e emana calore.  
 
Lisbõa è una domenica mattina silenziosa, col profumo dei glicini di Largo do Carmo. Il profumo del caffè tra le vie dello Chiado. E poi silenzio e di nuovo profumo di glicine.
 
Lisbõa è anche odore di spazzatura. Ce n’è tanta ai lati delle strade.

Tanti i barboni accampati vicino al porto, vicino alla stazione Cais do Sodrè, tanti nella centrale Praça do Commercio, tanti lungo Rua di Garrett, la via dello shopping, quella della FNAC e delle scarpe italiane. Parlano a voce alta; dicono cose in una lingua sconosciuta, diversa dal portoghese, dall’italiano, dal francese. È la lingua dei diseredati, di quelli che non hanno patria né dimora, di quelli che in questo mondo non hanno avuto fortuna e che si son fatti abbracciare dalla strada.  Vivere non è mai una cosa facile.

Lisbõa è una città operosa ma tranquilla: i Lisboetas non ti travolgono sugli autobus il lunedì mattina, non sembrano essere tutti incazzati con il mondo. Sono distanti ma affabili; gli occhi sfuggenti e il sorriso un po’ malinconico. Ma se sentono uno straniero parlare la loro lingua, beh, allora cambia tutto. Ti sorridono gentili, ti chiedono cosa hai visitato, dove vuoi andare, cosa ne pensi delle loro città, dei loro treni, della loro musica, della loro squadra di calcio. Ti suggeriscono dove andare a cenare, i musei da visitare, le strade da evitare.
 
Li sento parlare e mi tornano in mente parole lontane, lette qualche anno fa e scritte ancora prima:

«Esistono in città certe tranquillità di campagna. Ci sono dei momenti soprattutto nei mezzogiorni d’estate, in questa Lisbona luminosa, in cui la campagna, come un vento, ci invade. E proprio qui, in Rua dos Douradores, godiamo di un sonno tranquillo. Quanto è bello per l’animo osservare sotto un tranquillo sole alto, il silenzio di questi barcocci di paglia, di queste cassette da riempire, di questi passanti lenti di villaggio dislocato. E anch’io mentre guardo affacciato dalla finestra di quest’ufficio, nel quale sono da solo, mi disloco: mi trovo in una calma cittadina di provincia, in un villaggio sconosciuto, e sono felice perché mi sento un altro».
 
Lisboa, 29/ 08/1933
[Fernando Pessoa, “Livro do Desassossego por Bernando Soares”]

“Il Portogallo è un paese piccolo ma vario. Ogni 50  chilometri puoi imbatterti in un Portogallo diverso”, mi ha detto il controllore sul treno che da Lisbona mi portava a scoprire la magia di Sintra. Dal poco che ho visto, credo che l’orgoglioso controllore avesse proprio ragione.


Il mio viaggio è terminato e forse è giusto così. Non si può viaggiare tutta una vita che si rischia di perderlo il contatto con la vita.
Camminare, conoscere, rimettersi in discussione ogni giorno, confrontarsi, sentirsi piccini di fronte all’immensità del modo fa bene. Fa sentire vivi. Però poi si avverte l’esigenza di fermarsi, mettere a fuoco gli stimoli ricevuti, interiorizzare l’esperienza  prima di pensare alla prossima meta.

E ripartire di nuovo.

venerdì 6 giugno 2008

Viaggio in Portogallo

Meglio una pensão nel Bairro Alto o una stanza non proprio economica nell’Alfama? Ma perché non una guest house per backpackers nel Rossio…. Be’, opzione un po’ costosa per esser un ostello in Portogallo. Ma Pessoa che avrebbe consigliato?
Sogno un viaggio in Portogallo da tempo immemorabile, da quel giorno in cui delle note struggenti, che sapevano di partenze e addii ma anche di scoperte di mondi nuovi, entrarono in una casa luminosa e chiassosa di studenti universitari. “Cos’è?”
«Fado. Mai sentito?», rispose Nuno col solito sorriso luminoso.
«È la musica di Lisbona, un lamento dell’anima che corre tra i vicoli portoghesi, che t’insegue tra i palazzi rivestiti dagli azulejos, tra le botteghe antiche e i castelli. Entra lentamente nelle tue corde e non t’abbandona più. Dovresti andare una volta in Portogallo, potresti innamorartene».
Sarà stata la voce di Amália Rodrigues, sarà stato l’accento portoghese di Nuno, certo è che da quel giorno ho stabilito che Lisbona non poteva mancare nella mia lista delle città da visitare. Lista che si è allungata settimana dopo settimana, tranne poi avere tempo e risorse per partire appena possibile.
Avrei voluto progettarlo meglio questo viaggio a Lisbona ma se l’avessi fatto forse avrei rimandato nuovamente perché “sei giorni sono davvero pochi per il Portogallo, perché sono stanca e forse avrei bisogno solo della tranquillità della montagna, un buon libro e tanta musica; un viaggio come questo non lo si può organizzar all’ultimo minuto”… e tutte quei tortuosi percorsi mentali che fino ad oggi hanno fatto sì che non partissi.
Stavolta, invece, prenderò il mio aereo e poca conta se è da mesi che non parlo portoghese, se non so ancora dove mi fermerò, se forse andrò a Evora o forse no… Viaggiare è conoscere e se dovessi perdermi tra i vicoli dell’Alfama e decidere di trascorrere lì i miei sei giorni, be’ vorrà dire che resterò lì. In fondo è questo ciò che mi affascina del viaggio: sapere solo da dove si parte, dopodiché c’è la scoperta.

sabato 24 maggio 2008

Roma, culla della civiltà

“Ma il vento in faccia mi riportò all’unica realtà e il ricorrente ricordo di Roma mi levò il respiro, una tazza di cappuccino a un piccolo tavolo di piazza Navona con una ragazza dai capelli corvini accanto, che mangiavamo anguria e ridevamo, e lei sputava i semi ai piccioni”.
Vi presento John Fante e il suo ironico a “Ovest Di Roma”. Leggo la frase in apnea, non tanto per la bellezza delle parole quanto per l’odore poco gradevole proveniente dall’ascella del mio vicino. Vorrei allontanarmene ma lo zaino del tedesco che mi è accanto rende ardua l’impresa. Ma poi, mi chiedo, perché mai i turisti devono uscire alle 7.30 di un cupo venerdì di maggio e schiacciarti nella metro B? Non sono in vacanza loro? Bene, e allora perché non uscire verso le 9.30, belli, freschi, riposati senza far rosicare chi a quell’ora va in ufficio e preferirebbe di gran lunga andar a vedere la mostra di Renoir al Vittoriano, ad esempio.

Per un attimo queste riflessioni sparse mi distolgono dal mio libro; sollevo lo sguardo e incrocio gli occhi che sbadigliano di un distinto signore in completo grigio topo, Sole 24 ore in una mano, borsa con Notebook nell’altra. Tenta di leggere almeno l’editoriale del quotidiano, ma i soliti: ”Scende alla prossima? No? Ma allora perché diavolo sta lì impalato? Si tolga, no?” glielo impediscono. Troppo distinto il signore per poter rispondere “Come diavolo faccio a spostarmi se siamo più pigiati di una sottiletta in un toast?!”
No, stai calma! Torna al tuo libro, perditi tra le righe di questo romanzo e non guardarti intorno che ti vien il sangue amaro prima del tempo. Torno con gli occhi alla pagina. “Roma, la città eterna, culla della civiltà”, incalza John Fante. “Ah cojone, nun vedi che devo scenne’!”

Sì, già, Roma, culla della civiltà…

giovedì 22 maggio 2008

Supereroi

Questa è la storia di Fabrizio, ma è anche la storia di Marco, Martina, Francesco…
Di Fabrizio conosco il nome, il sorriso, la tenacia, l’energia vitale che gli si legge negli occhi e che muove velocemente la sua carrozzina tra le colline del mio paesello. Sì, Fabrizio non ha gambe su cui poter fare affidamento, ma si allena tutti i giorni, su strada, in palestra, al campo; pratica sci di fondo e tennistavolo. Correndo, è stato così che le nostre strade si sono incrociate. Io sulle mie gambe, lui a forza di spinte con le braccia. Ci sono volute settimane di “ciao”, “buongiorno”, “buon proseguimento”, “buon Natale”, “buona Pasqua” prima di iniziare a chiacchierare tranquillamente perché, diciamocela tutta, la disabilità crea disagio. A noi, i cosiddetti normodotati, non a chi con l’handicap ha imparato a convivere. E, infatti, è stato Fabrizio il primo a rivolgermi parola.

«Dai che per essere una ragazza non te la cavi male!». Una frase semplice, buttata là, e abbiamo cominciato a correre insieme.

Abbiamo iniziato a parlare dello sport, di quanto aiuti ad affrontare i momenti negativi, di quanto la corsa riesca a far correre anche i nostri pensieri e a rimettere in ordine le idee.

Ha iniziato a piovere e, all’aumentare dell’intensità, si amplificava il profumo dei fiori di ginestra e dell’erba tagliata il giorno prima.

«Dai, corriamo ancora un po’ che gli acquazzoni primaverili sono passeggeri». Ma Zeus in questo periodo deve esser più nervoso del solito. Ha parcheggiato nei dintorni e non sembra voler abbandonare i nostri cieli. Sicché l’acquazzone primaverile si è trasformato in pioggia incessante; i guanti scivolano sulle ruote della carrozzina e con un sorriso abbiamo sospeso il nostro allenamento.
Ho pensato ai tanti Fabrizio che con dedizione, fatica e passione vedono lo sport come occasione di crescita, come stimolo per rimettersi in gioco, per stringere nuove amicizie, per divertirsi. Ho pensato a noi due che correvamo in una grigia domenica di maggio, mentre l’Italia s’interrogava su quali fossero le sorti dell’ultima giornata di campionato – “Vincerà l’Inter; in fondo lo merita con quello che ha sofferto” – e sulla formidabile formazione che Mr. Donadoni  convocherà per l’Euro 2008. Spendiamo fiumi di parole per commentare l’infortunio del povero Totti (con tutta la simpatia che nutro per lui e per la magggica Roma); ci tocca sorbirci noiosi servizi su quanti etti sia dimagrito Cassano nel corso degli ultimi 3 mesi; articoli fiume sul doping e il ciclismo. Per non parlare, poi, delle vicissitudini sentimentali di qualche calciatore strapagato con la velina di turno: notizie ‘sì importanti da meritare sempre uno spazio sulla prima pagina delle principali testate giornalistiche italiane.
Ma allora chi è che ha capito cosa sia lo sport e perché praticarlo? Fabrizio o l’attaccante trendy dal contratto milionario?

Perché non ridare dignità allo sport, alla filosofia e alla disciplina a esso associato? Perché non guardarsi intorno e cercare chi sono e dove sono i veri supereroi?

domenica 18 maggio 2008

Viaggiare, cercare, postare

Succede che in una giornata di quasi estate ti guardi intorno smarrita e scopri che non sai più dove stai andando. Succede che vorresti partire, cercare, cercarti. Ma ti chiedi se è altrove che devi guardare o se, forse, lo smarrimento non sia lì, dentro di te. E allora, se partire diventa fuggire, l’idea del viaggio perde valore. Non ho mai ben capito se quelli che dicono di partire alla ricerca di sé, si siano poi trovati. Boh…
Questo blog si sarebbe dovuto chiamare “personalità confusa”, perché è questo ciò che sono, ma ho visto che ce n’era già uno. Meglio librinvaligia, che racchiude l’idea della libertà, della scoperta, della ricerca. Perché, in fondo, leggere, scrivere, viaggiare è un po’ la stessa cosa. È guardare la realtà con altri occhi, è cambiare prospettiva, è desiderio di conoscere e di raccontarsi. Perché farlo pubblicamente su un blog? Forse perché siamo animali sociali e in un mondo che va sempre più veloce sentiamo l’esigenza di fermarci a riflettere, magari mettendole nero su bianco le nostre riflessioni, ‘ché scrivere aiuta a riorganizzare le idee. Perché mettere in rete le nostre seghe mentali? Forse per scoprire che non siamo i soli a farcene. In fondo, dietro un blog c’è l’idea di raccontarsi, di dare suggerimenti, di riceverne, di manifestare la propria indignazione, di condividere. E poi c’è la libertà. La libertà di star ad ascoltare o chiudere la pagina, d’incontrarsi e di scontrarsi, di lasciare un commento o di non perdere il proprio tempo dietro percorsi mentali contorti.
E poi dicono che la tecnologia ostacoli i rapporti umani….